Il ritratto
Alberto Sordi nasceva 100 anni fa, la sua filmografia è la biografia dell’Italia
Film complementare, a colori mentre Tutti a casa è in un drammatico bianco e nero, è Polvere di stelle del 1973 con Monica Vitti, sua la regia, in cui una compagnia d’avanspettacolo viaggia fra le linee della guerra come facevano le vecchie compagnie di giro. Il loro spettacolo aveva come numero di ballo erotico la canzone Ma ‘ndo vai, se la banana non ce l’hai?, che proseguiva con gli immortali versi “Bella hawaiana, attaccate ‘sta banana”. Monica Vitti era uno schianto di sex appeal e re Sordi la grande maschera del nuovo Bertoldo che deve arrangiarsi e che trova la forza di permettere alla sua donna di prostituirsi per salvare la pelle di tutti.
Nella Grande Guerra, uno dei pochi film italiani sulla Prima guerra mondiale, lui e Vittorio Gassman sono due soldati lavativi, imbroglioni, opportunisti, perfettamente aderenti al cliché italiano, ma in un sussulto di dignità e patriottismo scelgono il plotone d’esecuzione. Quest’uomo, come anche Gassman, Tognazzi, Manfredi, i fratelli De Filippo e specialmente Eduardo, dettero la propria vita artistica per incarnare la tragedia italiana della guerra e del dopoguerra, delle follie imperiali di un fascismo di cartapesta crudele e trucolento, lo sgomento della gente comune di fronte all’inganno, l’abbandono, l’occupazione, la povertà, l’arte di arrangiarsi e di sopravvivere che erano arti necessarie ai vinti di un Paese vinto, con le reni spezzate, per usare l’espressione mussoliniana “Spezzeremo le reni alla Grecia”. Era una voce e un carattere romano e anzi romanesco, come quello di Aldo Fabrizi e tanti altri eroi di celluloide e teatro, ma il suo personaggio reale era l’italiano, tutti gli italiani, nelle diverse fasi della loro crescita.
Alla guerra succede il boom economico, l’arte di fare quattrini, di vivere spensieratamente e vigliaccamente anche in Brevi amori a Palma de Majorca (in cui si inventa l’espressione poi eterna di “piatto ricco, me ce ficco”), come mercante d’armi, medico della mutua ignobile che fa della sua professione un mercimonio immondo. Sordi era un grande moralista e un lavoratore impeccabile, una persona con un alto senso del rispetto di sé e degli altri. Ho avuto il piacere, purtroppo non lungo, di conoscerlo e averlo per amico: quelle amicizie dei giornalisti che nascono dopo le interviste, come mi accadde anche con Ugo Tognazzi, altro gigante, che non so perché quando lo andavo a trovare al mare, mi cucinava le zucchine in padella. Erano minuscoli rapporti umani, ma di fortissima empatia con persone che sapevano di essere – come attori – tutto il mondo, specialmente il mondo italiano.
Per chissà quale buffo motivo, mi chiamava per nome e cognome: «Viè, Paolo Guzzanti, che te faccio vedè la scena», «Mo’ nun posso perché è arivato Paolo Guzzanti e dovemo parlà». Aveva bisogno di raccontare e raccontarsi perché sapeva benissimo di essere un grande storico della sua e altrui storia e di conoscerla meglio di ogni accademico. L’unica volta che dissentii da lui fu quando dette vita al Marchese del Grillo, autentico personaggio storico antisemita e gli mise in bocca il verso di Giuseppe Gioachino Belli “Io so’ io, e voi nun siete un cazzo”. Il sonetto del Belli originale non ha niente a che fare col marchese del Grillo. Dà voce a “Li soprani der monno vecchio” restaurati dopo il congresso di Vienna, il cui prototipo mandò come precursore il boia per leggere il suo editto ai sudditi: «Io so io e voi nun ziete un cazzo, sori vassalli buggeroni, e zitt»”.
Poi proseguiva con «A voi la vita nun ve la do: io ve l’affitto…». Purtroppo, quel verso – “Io so io” – ebbe un effetto spettacolare sugli spettatori che ignorano del tutto l’origine del verso del Belli, che è totalmente ignorato. “Mbè, ma era perfetto”, mi disse Alberto Sordi. E certo: tutto quello che faceva era perfetto. L’Italia settentrionale più ottusa e leghista, ne fece l’oggetto del suo dileggio, credendo e facendo credere che Alberto Sordi fosse il personaggio e che incarnasse di suo Roma ladrona, la corruzione, la burocrazia e la viltà. Non avevano capito un cazzo.
L’alberto-sordismo diventò una variante dell’idiozia italiana per tutti quelli che non riuscivano a capire che Sordi non portava in scena se stesso, ma gli italiani tutti. Era molto ricco e nacque la leggenda che fosse avaro, come il personaggio di Molière, di cui fu un interprete di mostruoso talento. Non era avaro e non prese moglie. A chi gli chiedeva perché, rispose davvero “Mica me posso mette un’estranea in casa”. Lo disse anche parlando dei figli che non ebbe: “Non sai mai chi te metti in casa”. Ebbe tante storie e la più lunga fu con una attrice di quindici anni più anziana di lui, Andreina Pagnani. Era un misantropo cattolico praticante che si dava molto alla carità, finanziando ricerca scientifica e ospedali, ma senza mai dare nell’occhio. Questa stranezza dell’essere considerato sia libertino che cattolico osservante, conservatore ma in grado di mostrare il senso della rivoluzione, ha fatto di lui non solo un grande attore interprete, ma un autore protagonista, uno storico e, tutto ciò messo insieme, una maschera.
Negli anni Sessanta fra noi giovani d’allora era diventato un vezzo, ma più che altro una necessità, parlare sempre come l’Alberto Sordi codardo: “Eh? Come dici cara? Siiii?”. Era il Tarzan della Maranella (le marane romane sono fiumiciattoli sudici e periferici per la balneazione dei poveri). Era un vezzo ma più che altro una lingua comune, come un patois o un argot, come del resto è il romanesco, che non è un dialetto ma un uso plebeo della lingua nazionale. È nato un secolo fa e ci manca da diciassette anni, quando un cancro ai polmoni se lo portò via e lui si lasciò catturare dalla morte con grande compostezza, cercando di restare vivo e pubblico, finché le forze lo consentirono.
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