Alberto Sordi nasceva 100 anni fa, la sua filmografia è la biografia dell’Italia

Molti anni fa eravamo al Festival di Gifuni, un evento cinematografico meridionale molto in voga. Alberto Sordi era accanto a me ed era estasiato dal pubblico di giovani e giovanissimi. Si alzò una ragazza e chiese, con forte accento: «Signor Sòrdi, scusate: il ginema segondo voi, ge l’ha un vuduro? E se sì, guale?». Alberto restò paralizzato. Faceva un suo personaggio, il suo: «Eh? Che dici, cara? Se il cinema cià un futuro? E che ne so io, cara? Che vòi che te dica? Dipenne da te, dipenne da voi se ciavrà un futuro. Perché me fai ste domande?». Sembrava stizzito come Mario Pio. Mario Pio era un suo personaggio radiofonico. Ci fu un tempo nell’immediato dopoguerra, in cui di Alberto Sordi si conosceva soltanto la voce e le sue invenzioni. Una di queste era Mario Pio: «Brondo? Qui Mario Pio, gon ghi parlo io?». Un altro era il “Conte Claro”, parodia della contessa Clara che furoreggiava sui rotocalchi dando lezioni di stile, vita, amore, moda e bon ton. Lui faceva la rubrica delle lettere alla radio: sempre con quell’accento romanesco un po’ virato sul burino che scambia dentali e labiali, “di” per ti e “bi” per pi: «Mi sgrive Marisa da Bordernone: Gonde Glaro, mi drovo in una derribbile ambascia…». E andava avanti.

Immaginate: esistevano nelle case delle grosse radio, le stesse con cui avevamo ascoltato Radio Londra e che poi ci nutrivano di magnifici sceneggiati radiofonici con spreco di effetti speciali fatti solo di rumori: cigolii, spifferi di vento, i racconti del mistero di Edgar Allan Poe, poi i notiziari radio e l’uccellino che faceva da intervallo: sei trilli, quattro trilli e poi due. Voleva dire che la radio attendeva l’ora esatta trasmessa con quattro punti e una lunga linea: «Sono le ore quattordici. Giornale Radio, oggi il ministro degli Affari interni, onorevole Mario Scelba…». Da quella radio paludata, ufficiale, scandita, poi usciva come una perdita di follia dai circuiti la voce di questo incredibile personaggio che prendeva in giro divi di un altro mondo scomparso: quello dei rotocalchi, dei fotoromanzi e della letteratura popolare cinematografica. Un giorno mia nonna mi portò una copia del Messaggero in preda a una frenesia: «Guarda! Sai chi è questo? Questo è Alberto Sordi»? «Alberto Sordi? La voce della radio? Ha questa faccia un po’ qualsiasi tra il giovane salumiere e il fuoricorso di Giurisprudenza?» Era lui.

Succedeva con la radio, dove le immagini te le dovevi fare da solo nella tua testa e poi non combaciavano. Il vero Alberto Sordi dal volto ancora ignoto era anche il geniale doppiaggio di Stan Laurel e Oliver Hardy, al secolo Stanlio e Ollio (era ancora un’Italia che storpiava i nomi stranieri, ribattezzando Donald Duck di Walt Disney come Paperino, quando gli ispanici lo traducevano fedelmente El Pato Donaldo) creando una lingua, una fonetica perfetta: l’italiano di accento inglese con tutta la consonantica e vocalica straziate che rendeva irresistibili due comici altrimenti puerili che Sordi rendeva non solo grotteschi ma anche drammatici.

E poi arrivò il genio cinematografico. Genio assoluto, senza rivali né ieri né oggi, perché soltanto un creatore di letterature e mondi, atteggiamenti e antropologie poteva inventare il ragazzone mammone con il mito americano de l’Americano a Roma: «Maccherone, m’hai provocato e io ti distruggo adesso, io me te magno», dice il fanatico filoamericano dopo aver tentato di adeguarsi allo strano modo di mangiare degli alleati. Secondo la leggenda, fu lui uno degli inventori della ricetta della Carbonara, utilizzando ingredienti basici del vitto contenuto nella scatoletta del soldato americano: polvere d’uovo, bacon abbrustolito con cui creare l’amalgama da integrare con una manciata di cacio (pecorino nei tempi poveri, parmigiano nell’opulenza) e tanto pepe nero da dare l’idea di una pioggia di carbone.
Alberto Sordi, che nacque un secolo fa a Trastevere, ha lasciato di sé una falsa immagine che appartiene ai personaggi orrendi: l’affarista, il palazzinaro, il traditore, l’opportunista, il vigliacco sempre pronto a vendersi e adattarsi.

La sua maschera unica: l’uomo che sbarra gli occhi di fronte a una proposta disonesta e che dice “Siiiiii?” e resta immobile estroflettendo la mandibola con l’espressione di chi non si aspettava una porcata del genere, ma è pronto ad adattarsi. I suoi viscidi “Come dici, cara?”, “Permette, commendatore?” e “Certamente signor generale” sono la maschera. Ma Alberto Sordi è stato anche l’autobiografia italiana, con i suoi mesti splendori. Eccolo in uniforme da ufficiale a Porta San Paolo dopo l’inizio dell’invasione tedesca dell’8 Settembre, mentre interpreta la tragedia delle forze armate lasciate sole a se stesse, senza ordini e senza comunicazioni: «Colonnello, pronto? Qui sta succedendo una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci sparano addosso. Che dobbiamo fare? Come dice, colonnello? Ah, lei non lo sa? E lo devo sapè io? Ma allora tutto è finito». Il film è Tutti a casa di Luigi Comencini e mi sono interrotto scrivendo questo articolo per guardare le scene della disfatta in cui Sordi è un soldato con la schiena dritta e poi finirà combattendo contro i tedeschi.

Film complementare, a colori mentre Tutti a casa è in un drammatico bianco e nero, è Polvere di stelle del 1973 con Monica Vitti, sua la regia, in cui una compagnia d’avanspettacolo viaggia fra le linee della guerra come facevano le vecchie compagnie di giro. Il loro spettacolo aveva come numero di ballo erotico la canzone Ma ‘ndo vai, se la banana non ce l’hai?, che proseguiva con gli immortali versi “Bella hawaiana, attaccate ‘sta banana”. Monica Vitti era uno schianto di sex appeal e re Sordi la grande maschera del nuovo Bertoldo che deve arrangiarsi e che trova la forza di permettere alla sua donna di prostituirsi per salvare la pelle di tutti.

Nella Grande Guerra, uno dei pochi film italiani sulla Prima guerra mondiale, lui e Vittorio Gassman sono due soldati lavativi, imbroglioni, opportunisti, perfettamente aderenti al cliché italiano, ma in un sussulto di dignità e patriottismo scelgono il plotone d’esecuzione. Quest’uomo, come anche Gassman, Tognazzi, Manfredi, i fratelli De Filippo e specialmente Eduardo, dettero la propria vita artistica per incarnare la tragedia italiana della guerra e del dopoguerra, delle follie imperiali di un fascismo di cartapesta crudele e trucolento, lo sgomento della gente comune di fronte all’inganno, l’abbandono, l’occupazione, la povertà, l’arte di arrangiarsi e di sopravvivere che erano arti necessarie ai vinti di un Paese vinto, con le reni spezzate, per usare l’espressione mussoliniana “Spezzeremo le reni alla Grecia”. Era una voce e un carattere romano e anzi romanesco, come quello di Aldo Fabrizi e tanti altri eroi di celluloide e teatro, ma il suo personaggio reale era l’italiano, tutti gli italiani, nelle diverse fasi della loro crescita.

Alla guerra succede il boom economico, l’arte di fare quattrini, di vivere spensieratamente e vigliaccamente anche in Brevi amori a Palma de Majorca (in cui si inventa l’espressione poi eterna di “piatto ricco, me ce ficco”), come mercante d’armi, medico della mutua ignobile che fa della sua professione un mercimonio immondo. Sordi era un grande moralista e un lavoratore impeccabile, una persona con un alto senso del rispetto di sé e degli altri. Ho avuto il piacere, purtroppo non lungo, di conoscerlo e averlo per amico: quelle amicizie dei giornalisti che nascono dopo le interviste, come mi accadde anche con Ugo Tognazzi, altro gigante, che non so perché quando lo andavo a trovare al mare, mi cucinava le zucchine in padella. Erano minuscoli rapporti umani, ma di fortissima empatia con persone che sapevano di essere – come attori – tutto il mondo, specialmente il mondo italiano.

Per chissà quale buffo motivo, mi chiamava per nome e cognome: «Viè, Paolo Guzzanti, che te faccio vedè la scena», «Mo’ nun posso perché è arivato Paolo Guzzanti e dovemo parlà». Aveva bisogno di raccontare e raccontarsi perché sapeva benissimo di essere un grande storico della sua e altrui storia e di conoscerla meglio di ogni accademico. L’unica volta che dissentii da lui fu quando dette vita al Marchese del Grillo, autentico personaggio storico antisemita e gli mise in bocca il verso di Giuseppe Gioachino Belli “Io so’ io, e voi nun siete un cazzo”. Il sonetto del Belli originale non ha niente a che fare col marchese del Grillo. Dà voce a “Li soprani der monno vecchio” restaurati dopo il congresso di Vienna, il cui prototipo mandò come precursore il boia per leggere il suo editto ai sudditi: «Io so io e voi nun ziete un cazzo, sori vassalli buggeroni, e zitt»”.

Poi proseguiva con «A voi la vita nun ve la do: io ve l’affitto…». Purtroppo, quel verso – “Io so io” – ebbe un effetto spettacolare sugli spettatori che ignorano del tutto l’origine del verso del Belli, che è totalmente ignorato. “Mbè, ma era perfetto”, mi disse Alberto Sordi. E certo: tutto quello che faceva era perfetto. L’Italia settentrionale più ottusa e leghista, ne fece l’oggetto del suo dileggio, credendo e facendo credere che Alberto Sordi fosse il personaggio e che incarnasse di suo Roma ladrona, la corruzione, la burocrazia e la viltà. Non avevano capito un cazzo.

L’alberto-sordismo diventò una variante dell’idiozia italiana per tutti quelli che non riuscivano a capire che Sordi non portava in scena se stesso, ma gli italiani tutti. Era molto ricco e nacque la leggenda che fosse avaro, come il personaggio di Molière, di cui fu un interprete di mostruoso talento. Non era avaro e non prese moglie. A chi gli chiedeva perché, rispose davvero “Mica me posso mette un’estranea in casa”. Lo disse anche parlando dei figli che non ebbe: “Non sai mai chi te metti in casa”. Ebbe tante storie e la più lunga fu con una attrice di quindici anni più anziana di lui, Andreina Pagnani. Era un misantropo cattolico praticante che si dava molto alla carità, finanziando ricerca scientifica e ospedali, ma senza mai dare nell’occhio. Questa stranezza dell’essere considerato sia libertino che cattolico osservante, conservatore ma in grado di mostrare il senso della rivoluzione, ha fatto di lui non solo un grande attore interprete, ma un autore protagonista, uno storico e, tutto ciò messo insieme, una maschera.

Negli anni Sessanta fra noi giovani d’allora era diventato un vezzo, ma più che altro una necessità, parlare sempre come l’Alberto Sordi codardo: “Eh? Come dici cara? Siiii?”. Era il Tarzan della Maranella (le marane romane sono fiumiciattoli sudici e periferici per la balneazione dei poveri). Era un vezzo ma più che altro una lingua comune, come un patois o un argot, come del resto è il romanesco, che non è un dialetto ma un uso plebeo della lingua nazionale. È nato un secolo fa e ci manca da diciassette anni, quando un cancro ai polmoni se lo portò via e lui si lasciò catturare dalla morte con grande compostezza, cercando di restare vivo e pubblico, finché le forze lo consentirono.