È difficile immaginarlo, ma provateci. Immaginatevi che negli ultimi trent’anni il campionato di Serie A l’avessero vinto soltanto Juventus, Inter e Milan, con l’inserimento incidentale, diciamo, di Roma e Lazio, e che stavolta, finalmente, a festeggiare lo scudetto fosse un’altra tifoseria: per fare un’ipotesi irreale, quella del Napoli. Sarebbe o no un evento eccezionale, incredibile, da far perdere la testa? Parlando di tennis, è esattamente quanto è accaduto domenica ai Championships, che fin dal nome indicano la loro natura profonda: i soli e indiscutibili campionati del mondo dello sport dei gesti bianchi, organizzati per la prima volta nel 1877 sui rettangoli di prato di Worple Road dove ora si allenano i ragazzi di una scuola superiore e trasferiti nel 1922 un miglio a nord, lungo Church Road.

Dal 2003 al 2022 ad alzare la coppa istoriata che va al campione di Wimbledon sono stati Roger Federer, otto volte, Novak Djokovic, sette, Rafael Nadal e Andy Murray, due volte a testa. In tutto, diciannove titoli e non venti perché nel 2020 il torneo saltò per colpa del Covid. Poi, domenica appunto, un ragazzo di poco più di vent’anni, nato nella Spagna profonda due mesi prima che Federer aprisse il ciclo wimbledoniano dei Fab Four, affronta senza timori Djokovic, vincitore delle ultime quattro edizioni, accetta la lezione che gli viene impartita nel primo set (perso 1-6), mostra le proprie qualità nel secondo e le ribadisce energicamente nel terzo (7-6 6-1), accetta che il vecchio maestro abbia un sussulto nel quarto parziale (3-6) per poi matarlo (6-4) nell’ultimo, come si fa dalle sue parti con il toro ferito. Guarda casa, la Centre Court e la Plaza de Toros de Murcia ospitano lo stesso numero di spettatori, quindicimila.

L’avvento di Carlos Alcaraz al vertice del tennis professionistico non è di questi giorni, però. Il figlio di Carlos Sr., già buon giocatore negli anni novanta, e Virginia Garfia, allenato da Juan Carlos Ferrero che nel fatidico 2003 aveva vinto il Roland Garros, è il campione in carica degli ultimi Us Open, dove Djokovic non c’era, e a fine giugno, grazie al titolo conquistato sull’erba del Queen’s, si è ripreso il posto da capofila del ranking ATP, già suo per 22 settimane tra settembre e maggio. Piuttosto, a stupire molti, compreso chi scrive, è stata in queste settimane la sua dimestichezza con la superficie erbosa, sulla quale aveva avuto ben poche occasioni di mettersi alla prova in precedenza: una dimostrazione di duttilità tecnica che è pari solo alla maturità agonistica.

Le domande adesso si affollano sui social media dei tennis addicted: è finita per sempre l’era dei Fab Four? Persa l’ultima occasione di conquistare il Grande Slam, Djokovic si prepara a seguire sul pendio declinante i tre amici-rivali, dei quali uno già uscito definitivamente di scena? Carlitos dominerà incontrastato il circuito, visto che i suoi coetanei, da Rune a Sinner, da Musetti a Lehecka, sembrano assai meno dotati di lui e che i colleghi appena più anziani, da Medvedev a Tsitsipas, da Ruud a Zverev, sono in tutta evidenza precocemente invecchiati? La risposta più seria a tutte le domande è: calma, ragazzi.

Nole non ha alcuna intenzione di smettere di giocare, il mese scorso ha umiliato Alcaraz in semifinale a Parigi (6-3 5-7 6-1 6-1) e da fine agosto a New York si batterà per prendersi il suo terzo slam in stagione. Rune e Sinner potranno dare molti grattacapi allo spagnolo, che non sarà sempre in condizioni ottimali come a Wimbledon. Lo stesso vale per i venticinquenni come Tsitsipas e Ruud. Insomma, il trionfo londinese di Alcaraz apre un’epoca nuova senza chiudere la precedente, quella irripetibile di Roger, Rafa & Co. Si chiama transizione, ed è il modo migliore di cambiare qualcosa.

Claudio Giua

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