Diciamo pure che aveva di meglio da fare. “Studiavo filosofia quando iniziai una sostituzione estiva a Vespina, l’agenzia di Giorgio Dell’Arti”. Alessandro Giuli, in un’intervista di qualche mese fa rilasciata al Corriere della Sera, raccontava così a Tommaso Labate l’avvio casuale della carriera giornalistica e la mancata conclusione del percorso di studi universitari (non propriamente una “mission impossible”, per uno che era diplomato al liceo classico Tasso con 60/60 e aveva concluso tutti gli esami). Non è questa, tra le tante, l’obiezione che può imbarazzare il nuovo ministro. Eppure c’è chi non rinuncia all’ironia sull’incongruenza tra l’incarico ministeriale e la mancanza del titolo. Tra i tanti, inatteso, un Matteo Renzi dalle affermazioni solitamente più utili.

Da Steve Jobs a Michele Ferrero, tutti senza laurea

Che la laurea non sia un attestato di adeguatezza, persino per un ministero come quello, pare ovvio. Non c’è bisogno di scomodare i celebri casi di Mark Zuckerberg o Bill Gates. E neppure quello, ancor più iconico, di Steve Jobs, che raccontò di preferire i corsi apparentemente inutili di calligrafia a quelli a cui si era iscritto nel college. Senza quella trasgressione, che costò il conseguimento del titolo, i nostri pc “non avrebbero avuto le attuali capacità di tipografia che invece possiedono”. Il fondatore di Apple lo raccontò nel famoso discorso ai neolaureati di Stanford, quando ricevette – honoris causa – quella laurea che non aveva mai conseguito. Non volle neppure quella, per principio, il nostro illustre connazionale Michele Ferrero, che era ragioniere e rifiutò le proposte di numerose università. Per lui era una questione di principio.

I grandi uomini, si sa, non fanno scuola. A far riflettere maggiormente sono dati ben più diffusi. Anche perché il mondo va da tutt’altra parte rispetto a chi, ancora oggi, attribuisce al titolo di studio un certo valore imprescindibile. Eppure c’è chi continua a vedere come un mantra il suo valore legale, il cui mancato possesso dovrebbe inibire alcune opportunità, o al contrario garantire parità giuridica a titoli conseguiti in contesti che hanno storie e credibilità di distanza siderale (e il problema non sono in sé le università online, ma i meccanismi di verifica di un minimo di qualità).

La laurea, un requisito sempre meno indispensabile

Il mondo va in un’altra direzione. In un articolo su Fortune si legge che “le competenze hanno ormai la meglio sui titoli di studio agli occhi dei selezionatori, e che la percentuale di annunci di lavoro nel Regno Unito senza titolo di studio come requisito è aumentata del 90% tra il 2021 e il 2022” (dati da una rilevazione LinkedIn). Già da un po’ “aziende come Google, Microsoft, IBM e Apple hanno eliminato i requisiti di laurea richiesti per i posti di lavoro, per reclutare talenti più diversificati”. Nello stesso articolo Zahra Amiry, direttore associato della Talent Attraction di Omnicom Media Group, racconta il suo modus operandi: “Nessuno vorrebbe andare da un medico senza una laurea in medicina”, ma per altri settori la laurea sta diventando un requisito sempre meno indispensabile. “Quello che guardo è l’esperienza, le competenze, la gestione del team, la formulazione del CV, il modo in cui si presentano al colloquio, l’attitudine al lavoro e l’energia. Considererei tutto questo prima di una laurea”.

Giuli, un intellettuale di area

Anche per l’Italia ci sono dati significativi. Da una rilevazione di qualche anno fa di ManagerItalia, l’associazione professionale dei manager e delle alte professionalità del terziario, si rileva che solo due dirigenti su tre (il 65% per l’esattezza) tra quelli che operano in Italia sono in possesso del titolo di laurea. Tornando al neoministro, perciò, verrebbe da riproporre la domanda in direzione opposta. Come si diventa titolare del dicastero della Cultura anche senza laurea? O meglio: cosa ci racconta, in questo senso, la storia personale di Alessandro Giuli? Non c’entrano, nel suo caso, fortunose parlamentarie, berlusconiani colloqui sulla bella presenza o selezioni dell’ultimo istante (vedasi l’ascesa dello sconosciuto professore Giuseppe Conte). Alessandro Giuli è diventato ministro studiando, appassionandosi, diventando così – nel suo contesto – ciò che si chiama intellettuale di area.

 Potremmo dire, in altri termini, che è diventato ministro semplicemente “stando nel giro”, quando “il giro” è andato al potere. Può non piacere, ma con carriere come la sua si può dire ai giovani: studiate, approfondite e appassionatevi, ma non rimanendo chiusi in biblioteca universitaria, bensì facendo gruppo, stando in mezzo agli altri, nelle manifestazioni, prendendo posizione nei convegni o nelle redazioni in cui la si pensa diversamente da voi. La sua storia è più o meno questa. C’è un modo più democratico, “dal basso”, fashion e istruttivo di questo?