In tanti anni di teorie e pratiche di femminismo, mai ho incontrato pagine di una consapevolezza così profonda e di un coraggio così sorprendente nel nominare ciò che resta innominabile della relazione tra uomini e donne, dalla quotidianità dei matrimoni al sogno d’amore, mai una messa a nudo così libera, diretta e impietosa delle ambiguità e contraddizioni che passano attraverso la violenza invisibile del patriarcato, come nel libro di Alice Rivaz La pace degli alveari (Paginauno edizioni 2019).

“Siamo rimasti a guardarli mentre si scatenavano. È proprio quello che, da madri, reprimiamo nei nostri figli piccoli, che ammiriamo nei nostri bambini diventati uomini. Quel gesto che meriterebbe il biasimo, se non una sberla, basta che il ragazzino sia diventato adulto ed ecco che le donne gli danno un altro nome. Come le parole “crudeltà” e “violenza” che diventano di colpo coraggio e eroismo. (…) Noi facciamo e loro disfano. Disfano persino, poco alla volta, le loro stesse teorie, il credo di una generazione con quello di un’altra, cercando nomi sempre nuovi per giustificare le loro dementi carneficine. (…) Quella complicità tra i sessi, se ne conosce fin troppo bene la causa, tuttavia non è per forza inevitabile”. Né romanzo, né diario, la scrittura di Alice Rivaz ha l’andamento originale di quel felice divagare dei pensieri che una donna sposata conosce nei rari momenti in cui riesce a rimanere sola e a ritrovare i “poteri” che aveva perduto “smettendo di esserlo”.

Basta un’assenza per rendere possibili svelamenti trattenuti a lungo, per poter dire “credo di non amare più mio marito”, e riconoscere che nel “penare così tanto”, lavorare così a lungo “per lui” e “a causa sua” , non è l’amore che si misura ma “l’obbedienza”, il termine che a poco a poco lo sostituisce, “quando le squame cominciano a caderci dagli occhi e osiamo chiamare gli esseri e i sentimenti con il loro vero nome”. Eppure, è proprio quando ha inizio la delusione della vita a due, quando si smette di amare o di essere amati, che il richiamo dell’amore torna a farsi sentire, come nostalgia del legame perduto o attesa di nuovi rapimenti, di gioie amorose provate solo in sogno. “Adesso ho proprio bisogno di confessarlo: vorrei ancora un altro amore (…) mi aspetto ancora qualcosa , lo sento, da questa razza straniera con la quale noi dividiamo la nostra casa, il nostro letto, la nostra vita (…) Il fatto è che noi eravamo delle innamorate, e loro hanno fatto di noi delle casalinghe, delle cuoche. Ecco cos’è che non riusciamo a perdonargli.” La “tragedia della coppia” sembra non conoscere cambiamenti generazionali: le zie, le madri, le nonne, “è la loro vita che sto rivivendo”, ammette Jeanne la protagonista del libro di Alice Rivaz. Lei sa, vede o indovina quello che succede alle sue amiche: “sempre gli stessi desideri, lo stesso bisogno divorante, quello di essere ammirate, amate, preferite, quello di suscitare, di forzare l’amore”.

Unica differenza è che al senso del dovere e alla venerazione del maschio sono subentrati il malcontento, la rivolta, l’astio, la capacità di riconoscere la propria insoddisfazione, ma poi di nuovo il conformismo femminile: la tentazione delle donne di giocare le attrattive che l’uomo ha loro attribuito: la bellezza, la devozione, il sacrificio, quel culto di loro stesse che continuano a cercare nello sguardo, nei gesti, nelle parole dell’altro. “Essere tutto quello che hanno detto che eravamo”. C’è anche qualcuna che continua a sfidare la crisi del matrimonio affrontando l’amore a viso aperto, per farlo durare, “per impossessarsene, per trasformarlo in un ospite quotidiano, a loro misura”. Ma ci vuole per questo una grande ostinazione, “un’ anima da capomastro sempre pronta ad intonacare, a camuffare le crepe e le fessure che, giorno dopo giorno, sgretolano la vita di coppia”. Nel suo libro, altrettanto coraggioso nel nominare gli aspetti più impresentabili del rapporto tra i sessi – Smarrirsi in pensieri lunari (Graus Edizioni 2007) – Agnese Seranis scrive che c’è nell’amore una terribile necessità.

È la stessa che troviamo nelle costruzioni di genere, che, nella loro complementarità, strutturano perversamente logiche di potere e ricongiungimento armonioso di “nature diverse”. Ancora più radicale nel marcare sia la distanza che l’ambigua complicità tra uomini e donne è Alice Rivaz. Gli uomini sembrano appartengono a una “specie diversa”, una “razza straniera” che le donne incontrano solo nell’amore, tanto da dubitare di poterli vedere davvero come “persone”. Fatti per vivere tra di loro, una “confraternita nell’avventura” che li spinge, una generazione dietro l’altra, verso la lotta e la morte, che cosa hanno a che fare le donne con “pazzi del genere”, con le loro incomprensibili carneficine? “Insegniamo loro a camminare, a parlare, li educhiamo e li vestiamo. Ma non appena sfuggono dalle mani, dalle nostre case, dalla sorveglianza vigile dei nostri occhi, eccoli sparire in massa. Dove vanno? Cadono a milioni, gli occhi chiusi dall’orrore, su tutti i campi di battaglia del mondo”.

Pubblicato nel 1947 a Losanna, l’eco della Seconda guerra mondiale non poteva non farsi sentire, nel libro di Alice Rivaz, evocare le figure della virilità guerriera che hanno segnato la storia, da Attila a Hitler. Tuttavia è nel quotidiano, nella divisione sessuale dei compiti domestici, nel lavoro delle donne “senza inizio né fine”, come quello di un contadino che non conoscerà mai la ricompensa del raccolto né momenti di svago, che Jeanne arriva a pensare come esempio di perfetta organizzazione di vita e lavoro, quella delle api, con la sua “messa fuori gioco, metodicamente voluta ed operata, dei maschi piantagrane. Sacrificarli, comunque, affinché l’alveare viva”. Ma subito dopo aggiunge: “Noi non siamo delle api” e basterebbe, non tanto privare gli uomini dell’amore, ma smettere di fargli da mangiare e prendersi cura di loro, smettere di ascoltarli come un “coro laudativo di serve”.

Nelle pagine finali colpisce un’osservazione che sembra portare a un ulteriore svelamento dell’ambigua relazione di amore e odio tra i sessi. L’incontro con un uomo cosciente della “tragedia della coppia”, ma vista dall’altra parte, porta la protagonista del libro a chiedersi se il nemico non sia l’altro, ma l’amore stesso, “l’amore frainteso”, quell’ambiguo legame che l’amore ha con la violenza. Finché i baci sono “già degli stupri, delle prese di possesso, un forsennato calpestio”, è chiaro che la tenerezza, la comunione con l’altro, resta quella dei sogni, dell’idealizzazione amorosa, o quella che scorre dai genitori ai figli nell’infanzia. Non è difficile capire, di fronte a una lucidità che ha ancora molto da dire al femminismo oggi, perché il libro di una coscienza anticipatrice come Alice Rivaz abbia avuto bisogno di essere riscoperto, sottratto al silenzio, per non dire all’ostilità che ne accompagnarono l’uscita.