Alla ricerca dell’intesa tra Hamas e Israele: Egitto, Qatar e Stati Uniti al lavoro. Sale la pressione su Netanyahu

Egitto, Qatar e Stati Uniti continuano a lavorare alla possibile intesa tra Hamas e Israele. Anche se la delegazione dello Stato ebraico ha fatto ritorno in patria dopo un giorno di trattative in cui il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva detto di “ascoltare soltanto”. I media hanno fornito diversi dettagli riguardo l’approccio del governo al negoziato in terra egiziana. Per l’emittente pubblica Kan, tre rappresentanti di Israele (il capo del Mossad David Barnea, il capo dell’agenzia Shin Bet, Ronen Bar, e il maggiore generale Nitzan Alon delle Israel defense forces) avevano proposto un’ipotesi di accordo a Netanyahu prima di recarsi al Cairo. Il premier avrebbe però bocciato le idee dei tre funzionari dicendo loro di controproposte durante le trattative in Egitto. Dopo le prime 24 ore di negoziato, Netanyahu ha poi deciso di non mandare di nuovo la sua delegazione ai colloqui. Una scelta che, secondo il sito Walla, è dovuta principalmente al desiderio del premier di non mostrarsi troppo accondiscendente alle condizioni di Hamas, già definite da lui stesso come “deliranti”.

Oggi, a detta delle fonti vicine al dossier, si parlerà in particolare dei profili umanitari dell’accordo. Ma finché non saranno modificate le richieste di Hamas riguardo la liberazione degli ostaggi, Israele non sembra intenzionato a rimettersi al tavolo delle trattative. Anche solo formalmente. I colloqui in ogni caso continuano anche in queste ore. E la speranza dei mediatori e della comunità internazionale è che dalla tre giorni di discussioni si arrivi a un quadro più o meno definito per una futura tregua e per la liberazione degli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas e sotto sequestro dal 7 ottobre. Una speranza cui si è unito anche il leader dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, che ieri ha rivolto un appello al gruppo che controlla Gaza. “Chiediamo al movimento di Hamas di accettare velocemente l’accordo sui prigionieri per risparmiare il nostro popolo palestinese dalla calamità di un altro evento catastrofico con conseguenze terribili, non meno pericolose della Nakba del 1948”, ha detto il leader dell’Anp secondo quanto riferito dall’agenzia palestinese Wafa. E lo stesso appello è stato rivolto ai mediatori internazionali impegnati in questo difficile negoziato ritenuto essenziale soprattutto per evitare l’assalto a Rafah, ultima città del sud della Striscia dove sono rifugiati non solo i battaglioni di Hamas, ma anche più di un milione di civili fuggiti dalle altre parti dell’exclave palestinese.

Uno scenario che preoccupa i leader mondiali (ieri è arrivato anche il richiamo del presidente francese Emmanuel Macron, che ha ribadito la sua “ferma opposizione” all’operazione militare israeliana contro Rafah) così come le maggiori organizzazioni internazionali. Richard Peeperkorn, rappresentante per Gaza e la Cisgiordania dell’Organizzazione mondiale della Sanità, ha detto che un assalto contro la città del sud della Striscia “spingerebbe il sistema sanitario più vicino all’orlo del collasso” e “amplierebbe il disastro umanitario oltre ogni immaginazione”.

Il pressing su Netanyahu è forte tanto a livello internazionale quanto interno. L’Hostages Families Forum, associazione che riunisce i familiari di molti ostaggi, ha detto di essere rimasto “sbalordito” dalla scelta del governo di non inviare nuovamente la propria delegazione al Cairo per i colloqui, e ha accusato l’esecutivo di “ostacolare” il negoziato. “Sembra che alcuni membri del governo abbiano deciso di sacrificare la vita degli ostaggi” ha rilanciato il Forum, definendo la scelta di Netanyahu “una condanna a morte” per chi è ancora sequestrato nella Striscia di Gaza. Per il governo dello Stato ebraico sono ore e giorni difficili. Ma molti osservatori temono che, a questo punto, il primo ministro non abbia intenzione di raggiungere rapidamente un accordo. Netanyahu sa che la sua leadership è ormai in forte calo e che alle prossime elezioni dopo il conflitto non tornerà a guidare il Paese. E la sua unica speranza di sopravvivenza politica è una “vittoria completa e totale” su Hamas che passa per il completamento della campagna militare a Gaza.

Una questione di vita e di morte, cui si aggiunge, ora anche il timore di un nuovo surriscaldamento del fronte nord. Ieri i razzi di Hezbollah, la milizia sciita del Libano, sono piovuti nel nord di Israele uccidendo una militare a Safed. Le Idf hanno risposto con “raid estesi” in tutto il sud del Paese dei cedri, dove sono morte quattro persone. Secondo fonti libanesi, due sarebbero bambini. Secondo le Tsahal, a essere colpite sono state strutture militari di Hezbollah e in particolare della sua forza Radwan, una delle unità speciali della milizia. E mentre si tratta a livello diplomatico per allontanare il gruppo filoiraniano dal confine di Israele, la destra radicale, in particolare con il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, parla chiaro: “Questi non sono attacchi intermittenti, è guerra”.