Forse è vero che i motivi per cui si sceglie di far superare la prova del tempo ad alcuni scrittori e altri no, conducano più spesso dalle parti del destino, dell’incomprensibilità della sorte, e non da quelle dove alberga il talento. Non è una regola a cui affidarsi con convinzione, quella di far giocare la partita fra i maestri del Novecento e gli autori meno in luce, in cerca d’una riscoperta o di una più degna attenzione, sul terreno della sola capacità. Sono tanti gli elementi che intervengono nel decretare la strada del successo e della sua tenuta, e non credo sia interessante indagarli. Ciò che invece può esserlo è invocare l’opera di un’autrice che va letta, discussa e riportata al centro della scena, per via della sua inimitabile modernità, sintomo d’una sorta di preveggenza stilistica, in cui a prendere dimora è una voce libera, in quanto selvatica e sfrondata dalla classicità delle regole, e propria, in quanto, come accade ai grandi autori, da subito riconoscibile.

Lalla Romano nasce in un’antica famiglia piemontese, ma si trasferisce a Milano nel dopoguerra, dove lavora come insegnante e dove riprende a scrivere. Il suo romanzo d’esordio è “Maria”, la storia di due donne sull’asse di una differenza di classe incolmabile nelle distanze, ma unite dalla nascita di un bambino, il figlio della protagonista, che è voce narrante della vicenda: quel ragazzino che, nell’incedere della guerra e nel proseguire delle morti, torna per la “serva” della signora a essere sollievo e incanto, patrimonio di ricordi intimi contro la comune violenza di un incomprensibile agire. Segue “Tetto murato”, la raccolta di poesie “L’autunno”, un libro di viaggio sulla Grecia, fino a “La penombra che abbiamo attraversato”, nel ’64, in cui a chiarificarsi è il canone che si tramuta in una firma indelebile. Innanzitutto, l’autobiografia – che nel romanzo si concentra soprattutto nei luoghi e gli anni della prima Guerra Mondiale. Irrompe fra le pagine di Romano, questa donna d’indole così schiva e riservata, quest’autrice così lontana dalle moine dei salotti letterari, la grazia della crudeltà e la natura agrodolce dei sentimenti: filiali, amorosi o materni. Rapporti che vengono messi a nudo.

Al pari di tutte le confessioni costrette fra i focolari domestici, inviolabili da chi è estraneo al nucleo della famiglia, che cominciano a sorreggere l’afflato di un’indagine perseguita da romanzo in romanzo: sulle asprezze celate dal riserbo borghese, sulle verità taciute per il buon costume, e sugli sfilacciamenti che dai non detti possono conseguire. La censura delle parole è il rovescio della medaglia di una scrittura straripante nelle riflessioni, spesso brutali, nell’asperità dei pensieri scomodi e nell’incontenibilità dei lati oscuri della vita. Non è un caso se il romanzo più celebre di Romano, scivolo verso il grande pubblico, per cui l’autrice riceve nel ’69 il Premio Strega, sia quello più restio alla misura, seppure metta al centro un tema tanto delicato quanto il rapporto della scrittrice con un figlio ribelle, problematico, impossibile da codificare: “Le parole fra noi leggere”. L’eterno presente che non conosce un domani è il dolore della perdita a cui i rapporti d’amore, con un figlio, o con un marito, riusciranno a obbligarti.

Nel suolo pietroso dei ricordi, Romano si concentra sui brevi istanti, il momento esatto in cui, le parole precise che, l’atto fugace di, una ressa di piccoli minuti dettagli che, nel dopo, quando il rapporto si è già compromesso o quando si sta scontando un lutto, acquistano una nuova luce e una diversità di senso. “Devo cominciare da tutte le volte che ho pensato che poteva morire”, scrive Romano di suo marito in “Nei mari estremi”. E così, proseguendo, ci porta dentro l’incertezza che si cela dietro la felicità di una giovane coppia, il sopraggiungere, fra il piacere dei baci, delle ansie, o dell’incubo della perdita e della mancanza. Nei mali estremi di un’esistenza uguale a tante, ma nel mare estremo di una scrittrice capace come poche, mentre è lì a narrare, di giungere al punto più abissale di queste assenze.