“Tutti i supermercati del milanese sono in mano alla ‘ndrangheta”. Quando un procuratore antimafia come Nicola Gratteri, molto presente sui media, lancia un allarme simile, una città come Milano che solo nel commercio conta 75.000 imprese rimane scioccata e si interroga. Centinaia di migliaia di persone, dagli imprenditori agli addetti, che ogni mattina si rimboccano le maniche e – come si dice – “alzano la claire” si domandano se stiano davvero lavorando in un sistema così corrotto. Milano non è, di sua natura una città che si nasconde dietro un dito. Non può e non vuole permetterselo.

Istituzioni, associazioni di categoria, imprese, sono assolutamente consapevoli di quanto la criminalità sia attratta dal profitto e si proponga come un canale di servizi alternativi, magari apparentemente competitivi rispetto alle complessità della burocrazia. Ma proprio per questo chiede un confronto serio e utile, non di iperboli, buone per occupare titoli di giornali, ma non per avere la consapevolezza del problema.

Del resto, se appena un giorno dopo, un altro procuratore come Alessandra Dolci rilascia un’intervista dicendo che le parole del collega “«sono un’esagerazione”, pur senza minimizzare il problema e anzi, sottolineando come sia necessario un impegno politico forte per contrastare l’imprenditorialità criminale, vuol dire che quelle dichiarazioni sono perlomeno sfuggite di mano.

Capita, certo, ma non dovrebbe capitare a chi per mestiere deve indagare e accertare la realtà. E soprattutto non può e non deve finire per alimentare la percezione di un pericoloso tirassegno che abbia come bersaglio la città che traccia la direzione economica e civile del Paese. La Milano dei fatti, non ha bisogno di parole fuori posto.

Sergio Scalpelli

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