Marino: "La legge non è stata applicata fino in fondo e al governo del problema non importa"
Allarme Rems, mancano i posti: più di 70 malati mentali in carcere a rischio suicidio
Più di 70 persone sono in carcere, ma come riconosciuto da un giudice non dovrebbero essere lì. Non è il racconto di un inviato in una città del Venezuela, ma quello che avviene oggi in Italia per diversi malati mentali “socialmente pericolosi”. Insomma: chi ha compiuto reati, ma non può essere imputabile quando viene arrestato, perché manca la capacità di intendere e volere. Dovrebbero finire nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, aperte dal 2015. Peccato che non ci siano abbastanza posti: tra le 31 strutture presenti in tutta Italia i 609 occupati (secondo l’ultimo censimento del Garante nazionale dei detenuti) sfiorano la capienza massima di circa 670, che si riduce tra ristrutturazioni e temporanee carenze di operatori. E oltre a questi 70 in carcere, di cui 20 a Roma tra Regina Coeli e Rebibbia, ci sono le persone con misure alternative, come l’invio in comunità o la vigilanza terapeutica, ma comunque in lista d’attesa per le Rems: ad oggi più di 500, di cui un centinaio nella sola Sicilia.
Da tempo è una situazione difficile quella di chi è detenuto illegittimamente, vista la difficoltà di gestione da parte degli istituti penitenziari, dove continuano senza sosta i suicidi, con i pazienti psichiatrici che sono più a rischio di tutti. Ma ora il tutto si fa potenzialmente esplosivo con il coronavirus, con centinaia di persone colpite in cella. «Come evidenzia il nostro ultimo rapporto sulle condizioni di detenzione, – spiega a Michele Miravalle dell’associazione Antigone – a differenza di diverse carceri in tutto il paese, il sistema Rems ha avuto una buona risposta all’emergenza Covid-19». Lo scorso aprile, infatti, in piena prima ondata, nelle residenze si erano registrati 23 casi e solo un decesso, con 1222 tamponi eseguiti. Anche tra gli operatori, poi, solo sette colpiti e nessuna morte registrata. E nella seconda ondata: solo nove contagi registrati tra i lavoratori della struttura a San Nicola Baronia, in Campania. Vero è che la maggior parte degli ospiti ha tra i 36 e i 55 anni, ma si tratta comunque di soggetti molto vulnerabili. Non solo. «Anche se chi ha problemi mentali spesso non si ritrova in condizioni di affollamento – ci dice il presidente del Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma –con la pandemia per il personale specializzato diventa ancor più difficile seguire queste persone».
Intanto il monitoraggio nazionale sulle Rems previsto dalla legge istitutiva del 2014 ancora non esiste, con le informazioni che vengono raccolte solo dallo stesso Garante, le associazioni di categoria e una piattaforma informatica della Regione Campania. «La nascita delle residenze e la chiusura dei vecchi ospedali psichiatrici giudiziari è stata una rivoluzione di civiltà – ricorda Ignazio Marino, che presiedette la Commissione parlamentare d’inchiesta decisiva per questa svolta tra il 2011 e il 2013 – noi mettemmo fine a delle situazioni disumane, su cui nessuno chiedeva informazioni e di cui lo Stato doveva vergognarsi». «Tra le norme approvate – aggiunge – io volli fortemente un controllo continuo. Se la legge non è stata applicata fino in fondo vuol dire che c’è una responsabilità politica e morale della classe dirigente del paese. Non è nel radar del governo occuparsi delle residenze: non gli importa. Io non conosco i dati, ma dalla mia esperienza credo che effettivamente le persone in quello stallo siano più di 70: chi più di loro può essere considerato indietro rispetto agli altri?».
Per il presidente Palma c’è inoltre «un problema culturale: troppi malati che compiono reati vengono indirizzati alle Rems, ma la misura dovrebbe essere eccezionale e non di prima e immediata soluzione. Nel passato prima di mandare una persona in Opg ci si pensava quattro volte, ora le nuove strutture sembrano una soluzione accessibile, che mette al sicuro. I magistrati dovrebbero acquisire la giusta logica e in generale si dovrebbe investire di più sui servizi territoriali, per favorire le misure alternative, e sulla prevenzione medica, prima che si compiano i reati». Una possibilità che, secondo Marino, è prevista dalla sua legge: «I soldi ci sono, precisamente 55 milioni all’anno». Gli stanziamenti effettivi però scarseggiano, mentre, come spiega Palma, «c’è chi sotto sotto ha l’internamento diffuso nella mente, per cui vorrebbe tante Rems per risolvere le criticità».
Così non può essere. «Anche perché – chiarisce Miravalle – non è detto che poi i malati si trovino bene nelle strutture. Questi luoghi dovrebbero essere un passaggio verso altre forme di restrizione della libertà e poi il reinserimento sociale. Invece si stanno allungando i tempi di detenzione (347 su 609 sono ricoverati in via definitiva n,d,r,) e nei miei sopralluoghi ho visto alcuni posti in cui il senso di isolamento dei malati è più forte che se fossero in carcere».
Lo dimostra la storia di Valerio Guerrieri, il 22enne romano che è stato nella Rems di Ceccano, in cui, come ci racconta la madre Ester Morassi «si sentiva abbandonato» e da cui nel 2016 è scappato tre volte, prima di essere mandato a Regina Coeli e impiccarsi nella sua cella a inizio 2017, senza che nessuno lo fermasse. Per questa vicenda sono a processo sette guardie penitenziarie e una psicologa, per omicidio colposo, e forse a breve anche la direttrice del carcere e una dirigente del Dap, con accuse che vanno dall’omissione di atti d’ufficio al reato di morte come conseguenza di un altro delitto.
Non solo: secondo il report del 2019 dell’Osservatorio sul superamento degli Opg e sulle Rems, nelle strutture in 4 anni ci sono stati: quattro suicidi, quattro tentati suicidi, 202 aggressioni ad altri pazienti, 161 agli operatori e 98 allontanamenti. Tra l’altro la svolta delle Rems non è nemmeno stata completata: come denuncia Antigone alcuni ex Opg, come quello di Barcellona Pozzo di Gotto in Sicilia, «continuano di fatto ad essere carceri per matti, perché sono detenuti in maniera classica tanti soggetti con disagi psichici».
Intanto fino a qualche mese fa tra le persone malate e imprigionate illegalmente c’era anche Giacomo Seydou Sy, ragazzo bipolare di 25 anni e nipote dell’attore Kim Rossi Stuart. Lo scorso dicembre la madre Loretta Rossi Stuart, insieme alla garante dei detenuti di Roma Gabriella Stramaccioni, ha fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo: dopo dieci mesi di prigione ad aprile i giudici sovranazionali hanno imposto all’Italia di liberarlo da Rebibbia e hanno condannato il nostro Paese a pagare una multa. Adesso è stato trasferito nella Rems di Subiaco. Tra chi invece ancora aspetta c’è un giovane di 35 anni a Regina Coeli. La mamma, che vuole restare anonima, ci racconta che «il figlio sta male psicologicamente e ha avuto tante vicissitudini complesse: ha una causa civile in corso ed è stato arrestato solo perché ha perso il controllo e ha dato dei calci a un portone». «Anche noi – ci anticipa – faremo ricorso alla Corte europea per provare a liberarlo».
L’Europa come estrema ratio, quindi. «È chiaro che da adesso in poi non si può fare riferimento alla Corte per ogni caso – commenta il presidente Palma – ma potrebbe arrivare una sentenza pilota che dimostri il problema sistemico». Nel frattempo, però, per queste 70 persone l’attesa delle Rems o delle misure alternative potrebbe essere fatale. «Dovrebbero essere sorvegliate in una certa maniera perché sono persone difficili da contenere e andrebbero coinvolte in varie attività – ci dice allarmata la garante Stramaccioni – ma la polizia penitenziaria non ha il personale necessario. Così rischiano di entrare nelle residenze tra un anno. Forse troppo tardi».
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