Il futuro del governo
Alleanza dei Draghetti sempre più forte, ma il premier si irrita e non ne vuole parlare
La chiamano “alleanze dei draghetti”. Ormai se ne parla senza più remore nelle interviste e nelle conversazioni off line tra parlamentari, addetti degli staff, giornalisti. Il diretto interessato sta alla larga da certe ipotesi e si infastidisce anche se solo capita qualche riferimento. L’argomento è tabù. Le “alleanze dei draghetti” sono i gruppi, mai coincidenti con un solo partito, che hanno in testa un governo Draghi anche dopo il 2023. Oppure Mario Draghi al Quirinale. Subito e per sette anni perché in fondo è dal Colle più alto che un Capo dello Stato, dopo aver scelto con cura ministri e squadra di governo, può garantire al meglio la messa a terra delle riforme del Pnrr e una vera ripartenza economica e strutturale del Paese e non solo un “rimbalzo” fisiologico post pandemia.
Tutti i leader smorzano gli scenari dei prossimi mesi predicando il motto “una cosa alla volta”. Per rispetto delle istituzioni e dei ruoli. E dunque prima le amministrative, poi la delicata sessione di bilancio con le circa trenta riforme da fare entro la fine dell’anno e infine la partita Quirinale. Ovviamente questo ordine è saltato da un pezzo. E ogni giorno fioccano interviste o dichiarazioni che tirano il premier da una parte o dall’altra. L’altro giorno Giorgia Meloni ha cassato l’ipotesi di un Mattarella bis, ha caldeggiato Draghi che trasloca a febbraio al Quirinale “scenario che gli altri partiti non vogliono perché hanno paura di tornare a votare”. Ieri mattina ha risposto Giancarlo Giorgetti, il ministro leghista più vicino a Draghi e forse più diverso da Salvini, che ha detto che “Draghi dovrebbe restare lì tutta la vita, il problema è che non può”. E allora conviene che vada al Quirinale subito “perché non può sopportare un anno di campagna elettorale permanente. A partire da gennaio prossimo i partiti smetteranno di coprirlo e si concentreranno sugli elettori. Allora conviene che Draghi vada subito al Quirinale, si facciano le elezioni e governi chi le vince”.
Affermazioni che hanno spiazzato un po’ tutti. A cominciare dal Pd, un pezzo di Pd, Italia viva e i centristi che vogliono Draghi a palazzo Chigi fino alla fine della legislatura. E magari anche oltre. In un’altra intervista, sempre nel fine settimana, Matteo Renzi ha in sostanza detto che deve essere Draghi a decidere cosa fare, continuare al governo, andare al Quirinale, portare a conclusione il Pnrr anche oltre il 2023. Di sicuro “Draghi non è Monti” e non cadrà nella tentazione del suo partito. Alla partita Quirinale, quindi, è stata aggiunta anche quella Draghi oltre il 2023. Era stato il presidente di Confindustria Carlo Bonomi, la scorsa settimana, a lanciare in chiaro il tema “Draghi, uomo della necessità, resti il più a lungo possibile, anche oltre il 2023”. Senza per questo voler dire che debba fare supplenza di una politica, e di partiti, incapaci di governare. E però Matteo Renzi ha ricordato a Bonomi che Confindustria non è un partito e non sta in Parlamento. Della serie, ognuno stia al posto suo. Se queste sono le carte in tavola, le “alleanze dei draghetti” seguono strade diverse.
Dovendo schematizzare – con le imprecisioni che questo comporta – c’è un blocco ben assortito che vede coinvolti Pd, Italia viva, centristi, Forza Italia. Dire Pd come se fosse una cosa sola è impegnativo. Diciamo che il segretario Letta, non un Draghi boys ma ci siamo quasi, non vedrebbe male l’ipotesi Draghi anche dopo il 2023. Ma deve fare i conti con la parte sinistra del Pd – Orlando, Provenzano e Bersani – che invece sono più propensi a liberare la scena promuovendolo al Quirinale. La parte liberale e progressista del Pd – come ha dimostrato il recente convegno a Orvieto di LibertàEguale di Enrico Morando – ha introdotto apertamente il tema della “draghizzazione” del partito, riconoscersi cioè in un’agenda di riforme, inclusiva, che guarda ai poveri e ai giovani ma scommette su crescita, impresa e lavoro. L’obiettivo di questa “alleanza di draghetti” sarebbe quello di “avere il tempo di costruire in Parlamento e nel paese un movimento senza Draghi con l’obiettivo di rompere gli schieramenti, scompaginare, ridisegnare la sfida politica e riportare Draghi alla Presidenza del consiglio dopo il 2023”.
Alcuni esponenti di questa alleanza non credono alle spiazzanti parole di Giorgetti. Per un motivo soprattutto: “Questo Parlamento non vuole anticipare la fine della legislatura per motivi forse non del tutto nobili – due terzi non tornano in Parlamento e fino a novembre 2022 non scatta la pensione – e siccome il Capo dello Stato lo elegge il Parlamento, Draghi potrebbe non avere i numeri”. Dunque, l’intervista di Giorgetti, sarebbe “una deliberata sentenza suicida”. E i 5 Stelle con Conte e le sue velleità di tornare premier? “Alla fine resterebbero in scia. Di Letta e del Pd. Conviene a tutti”. In realtà anche un pezzo di Lega – quella Nord – potrebbe animare una “alleanza dei draghetti”. Per mandarlo subito al Quirinale, come dice Giorgetti ma, appunto, servono almeno 502 voti che nessuna coalizione in questo momento ha. Oppure, con una manovra molto rischiosa, arrivando alle politiche del 2023 senza un vincitore e proporre di nuovo Draghi come uomo della necessità. Ipotesi surreale? In politica mai dire mai.
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