C'era una volta la sinistra...
Altro che bipolarismo, Enrico Letta lo confonde con il bipopulismo
A chiusura della Festa di Bologna Letta ha celebrato la fine del tripolarismo e la conseguente necessità della rapida costruzione di un nuovo bipolarismo. Di sicuro, in questo suo schema duale, c’è che l’altro, l’avversario, ha il volto del nemico contro il quale deve scattare forte l’allarme per attivare la morsa della delegittimazione. Disegnare un nuovo assetto bipolare, e nel contempo enfatizzare il pericolo per la democrazia scaturito dal rischio mortale di un possibile trionfo del tandem Salvini-Meloni, significa semplicemente cadere in una aporia irrimediabile.
O c’è una situazione di reale pericolo rappresentato dalla destra para-orbanista e allora, approfittando dei rapporti di forza ancora favorevoli, è indispensabile come cauta misura preventiva cambiare la legge elettorale vigente la quale, associata alla forte riduzione dei parlamentari, apparecchia comodamente il successo dei sovranisti. Oppure esistono per davvero le condizioni politico-istituzionali alla base di una ritrovata dialettica bipolare, e allora però bisogna adottare il necessario fair play della competizione e smetterla di urlare alla democrazia assediata dai barbari nero-verdi. Senza in alcun modo sciogliere l’aporia, Letta intende giocare ambiguamente entro uno scenario falsamente bipolare che non a caso appena esaltato è da lui subito congiunto all’immagine del nemico in agguato che occorre snidare e depotenziare nel dibattito pubblico. Così un solo polo è legittimo, l’altro appartiene alla zona oscura perché lambisce l’eversione dei paradigmi del costituzionalismo. È arduo chiamare questo inferno di una democrazia pericolosamente sospesa un paradiso bipolare magicamente ricomparso.
In concreto, per alimentare il suo disegno strategico, Letta aderisce al modello del bi-populismo come cornice ineluttabile dello scontro e consegna le chiavi del fronte antisovranista in gestazione al già populista e sovranista Conte, peraltro il vero trionfatore della festa bolognese. Le immagini di Bologna sono il documento visivo dell’avvenuto scioglimento del Pd come formazione politica provvista di confini culturali, autonomia organizzativa.
L’innamoramento del pubblico bolognese per Conte che (mantenendo la mascherina, quasi a nascondere l’altro suo volto, quello di esecutore degli ordini del capitano nero) canta Bella Ciao sembra totale. Persino quando elogia la straordinaria esperienza amministrativa di Virginia Raggi, il militante democratico acclama le insensate (per un elettore romano) parole del nuovo messia che promette di tramutare la sconfitta certa in una vittoria facile.
Un colpo di spugna ha cancellato dalla memoria le firme sui decreti Salvini, le rivendicazioni reiterate di sovranismo e populismo. Nessuno più ricorda quando l’avvocato del popolo disse: “Capisco lo scoramento di Salvini, un leader che non può disporre di un euro per svolgere attività politica. Se non avessi fatto il premier mi sarei offerto per difendere la Lega”.
Tra il post-democristiano Letta, che con qualche tweet cerca di radicalizzarsi, e il post-democristiano Conte, che nell’assoluta indifferenza passa dal verde al rosso e cita Berlinguer, l’elettore del Pd mostra di preferire proprio l’astuto e poliedrico politico pugliese che dialoga con i presenti, formula domande retoriche per ricevere l’applauso più scontato. Tolta la componente dei giovani turchi di Orfini, nel lato sinistro del Pd non esistono più culture politiche in grado di pensare in termini strategici e di conservare quindi un briciolo di autonomia organizzativa e politica.
Il salvataggio del M5S decretato dal Pd con Zingaretti non è una operazione di altruismo senza costi. Si tratta infatti di uno scambio ineguale per spartirsi la dote di un elettorato complessivo del 35 per cento: uno dei contraenti perde consensi a causa dell’unilaterale rinuncia agli interessi partigiani e l’altro invece guadagna spazio grazie alla altrui generosità. Ed è più probabile, alla luce anche del candore impolitico del popolo democratico di Bologna, che Conte assorba come capo unificante le forze smarrite del Pd piuttosto che Letta riesca a intercettare il voto del M5S e a guidare l’istituzionalizzazione di una forza selvaggia.
Con una certa abilità acquisita nel tempo, Conte, tra una gaffe e l’altra, tra cifre improbabili e nomi di candidati sbagliati, occupa con sempre maggiore determinazione lo spazio politico di centro-sinistra, l’unico in grado di garantirgli una sopravvivenza dignitosa, di forza di media grandezza con la prospettiva di una centralità sistemica rispetto al compassato Pd indotto per inerzia a confluire nel movimento. La debolezza della leadership di Letta (più indeterminato persino di Zingaretti che adesso dopo la fuga rivendica il successo della sua strategia) autorizza il parimenti debole leader Conte a coltivare disegni di grandezza. Il piccolo avvocato si sente un grande Napoleone e progetta di essere stabilmente il capo di uno dei due poli del populismo sistemico italiano. Nel bi-populismo che si profila, con il suo “impegno stressantissimo” Giuseppi, politico della strutturale doppiezza, dopo aver servito supinamente Salvini si candida per occupare una postazione disponibile a fungere da alternativa rispetto al blocco sovranista.
Già le imminenti amministrative chiariranno i margini di manovra effettivamente esistenti per conferire una curvatura bi-populista al sistema politico. Nella congiuntura emergenziale che la politica attraversa, i calcoli di potenza troppo semplici rischiano di urtare contro degli scogli resistenti. La forza delle cose è la sola capace di far saltare il desiderio smodato di gloria di tanti leader pseudo-carismatici acclamati tra i fornelli bolognesi come novelli interpreti di un tempo bipolare finalmente recuperato. La percezione che solo con un futuro politico di Draghi sarà possibile consolidare le politiche di riforma, e scongiurare lo scivolamento catastrofico del voto verso Salvini e Meloni, è destinata a crescere in fretta. Ed essa costringerà gli attori al momento recalcitranti o miopi a costruire proprio attorno alla figura del presidente del consiglio in carica una solida prospettiva di tenuta democratica e costituzionale.
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