La riforma giustizia
Altro che carriere, separiamo i carrieristi dalle toghe perbene
L’anno che sta per chiudersi vede nubi addensarsi all’orizzonte. Un cielo cupo, segnato dall’attesa delle vere prime mosse del governo Meloni sul versante giustizia. Sinora si è praticamente scherzato. Tolto di mezzo un decreto rave di dubbia fattura e di ancor più dubbia efficacia e una semplificazione delle procedure di intercettazione di competenza dell’intelligence, ci sono solo dichiarazioni e annunci. Questa volta la pattuglia ministeriale di via Arenula vanta elementi di primo piano.
Carlo Nordio, malgrado il fuoco preventivo che lo ha investito, sta riempendo, una ad una, le caselle-chiave del dicastero (dal Legislativo al Dipartimento penitenziario) con gente di qualità e il pacchetto delle riforme non è prevedibile sortisca la fine di altre iniziative di precedenti governi finite sotto le randellate della Consulta. L’ultima bocciatura, di rilievo tra gli addetti ai lavori e poco nota ai più, è stata quella che dichiarava incostituzionale la norma del governo Renzi che centralizzava la comunicazione delle notizie di reato presso gli organi di vertice delle forze di polizia.
Gli avversari saggiano le reazioni altrui, cercano vie di dialogo più o meno visibili, intrecciano relazioni in vista del primo, importante appuntamento ossia l’elezione dei 10 componenti laici del Csm. Sembra passata un’era dallo scandalo Palamara; pandemia e guerra hanno segnato un solco nella vita collettiva. A tre anni quasi dall’inizio dell’emergenza pandemica, dopo svariati interventi del governo Draghi dalla prescrizione all’ordinamento giudiziario, dal processo civile alle indagini penali e su molte altre cose ancora, il nuovo governo è atteso a una prova complicata: innanzitutto deve portare a casa i risultati del Pnrr sul versante giustizia il che esige la massima collaborazione e un grande sacrificio delle toghe per smaltire gli arretrati e poi vuole mettere mano a una profonda riforma dell’assetto della giurisdizione che rischia di trovare barricate sulla propria strada da parte di settori non marginali della magistratura italiana. Il ministro Nordio lo ha ben capito che la via è stretta e non ha mancato di tenere la barra dritta su entrambi i fronti.
In verità perché sia possibile ipotizzare l’esito di questi progetti sarebbe necessaria una precisa rappresentazione dello stato, come dire, emotivo e psicologico della gran parte delle toghe italiane in questo difficile passaggio della società italiana. Rappresentazione che manca per colpa di una polarizzazione della pubblica opinione sul tema giustizia tanto fallace, quanto a dire il vero strumentale in favore di interessi poco commendevoli. La stragrande maggioranza dei magistrati italiani è totalmente estranea, nella quotidianità della propria opera (anzi del proprio servizio), alle preoccupazioni che agitano in questi giorni i fronti contrapposti. E’ chiaro da tempo – e l’affaire Palamara lo ha reso solo evidente ai più – che una ristretta cerchia di toghe ha tutto l’interesse a una contrapposizione al calor bianco con la politica, talvolta addirittura con le Istituzioni.
E’ in gioco non l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, ma più prosaicamente un sistema di relazioni di potere che ha collocato un pugno di toghe al centro delle interlocuzioni con la politica, l’economia, le imprese, la stampa. Basterebbe scorrere in modo ravvicinato, laico e non elegiaco, carriere e successivi pensionamenti, nomine e cooptazioni elettorali, assunzioni familiari e collaborazioni giornalistiche, per cogliere almeno la superficie di quel Deep State in cui si è incistata una parte della magistratura italiana, ordinaria, contabile e amministrativa sia chiaro. Una élite, esigua ma potente, dell’intero pianeta giudiziario italiano è esondata dalla funzione costituzionalmente prevista per ergersi a soggetto quanto meno cooperante nell’esercizio del potere. Se questa realtà non viene percepita ancora, è chiaro che questo accade per l’interesse che v’è a coinvolgere l’intero corpo giurisdizionale nell’agone che si profila. Sia chiaro, questo non significa che tutti i progetti di riforma di cui si discute abbiano l’aura della legittimità costituzionale o siano ispirati tutti da nobili intenti.
Il tema vero è tentare di raggiungere una ragionevole mediazione tra le impellenti urgenze di una corporazione che, anche in ragione del Pnrr, si sente ancor più investita di responsabilità e vuole dare una risposta positiva alle legittime attese del paese e una politica che intende ricollocare la giurisdizione in un ambito meglio confacente all’originaria struttura costituzionale. Perché sia chiaro quella del cosiddetto “controllo di legalità” è una post verità che nulla ha a che vedere con la Costituzione repubblicana. I padri costituenti, massacrati e perseguitati dal fascismo e dalle sue fedeli toghe, avevano scarsa fiducia dei magistrati e li volevano certo autonomi, ma sicuramente separati da ogni altro potere e incapaci di ingerirsi nei gangli della società.
La presenza dei laici nel Csm, e la scelta tra essi del vicepresidente, doveva essere soprattutto lo strumento con cui il Parlamento vigilava per impedire abusi e deviazioni delle toghe e ha ragione il presidente Santalucia quando denuncia che questa missione non è stata sempre portata a termine tra le mura di Palazzo dei marescialli in questi decenni. L’unica vera separazione di cui la magistratura ha bisogno non è quella delle carriere, ma quella dei carrieristi dalle tantissime persone perbene e qui la cosa si complica di molto.
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