Riflessioni sulla candidatura di Manfredi e sulla vicenda Irto
Altro che laboratori a Napoli e in Calabria: il Pd ha scambiato il Sud per una cavia

È un bene che il Partito democratico non abbia fatto le primarie a Napoli? Sicuramente, dati i precedenti e anche la tristezza dell’esperimento torinese (11.600 votanti). È la mancata celebrazione delle primarie il segno che Napoli si trova su un sentiero più virtuoso rispetto a Bologna, Roma e Torino? C’è da dubitare, anche se sui democratici partenopei ha agito lo scrupolo di non commettere il terzo “suicidio collettivo” consecutivo dopo le primarie del 2011 e del 2016. Perciò Gaetano Manfredi è stato scelto sul tavolo napoletano e non a Roma? Ricostruzione implausibile.
Perchè Napoli e non solo Napoli, come noto, è al centro di un teorema. Il teorema è che l’alleanza tra Pd e Movimento 5 Stelle funzioni e sia vincente, anche se i pregressi in cui è stata sperimentata non sono positivi. Che questo “laboratorio” sia indicativo di una potenzialità nazionale è da vedere, anche se si vincesse Napoli. L’ex ministro Francesco Boccia afferma che i due partiti sono divisi nelle altri grandi città, ma si ritroveranno ai ballottaggi per battere la destra. Ma le elezioni nazionali non hanno ballottaggi e nell’unico turno la destra è molto avanti in qualunque sondaggio.
La questione dell’oggi, peraltro, nasce dall’incestuoso intreccio tra le vicende napoletane e quelle calabresi e dai suoi scomodi sottesi che nessuno vuole rilevare con chiarezza. In Calabria il candidato democratico riformista Nicola Irto si è ritirato perchè poco gradito ai sostenitori del teorema e sicuramente poco desideroso di farsene promotore. L’irriducibile “civico” calabrese Carlo Tansi rompe con Luigi de Magistris che viene tenuto, per quanto possibile, nello schema anti-destra caro a Enrico Letta e Giuseppe Conte. Così, però, si passa disinvoltamente sopra dieci anni di cattiva amministrazione napoletana e si rinuncia a investire su una figura, come quella di Irto, forse ancora acerba ma che avrebbe segnato una netta discontinuità rispetto al passato, senza con ciò cadere dalla padella dei notabili alla brace dei civismi anti-partitici. Chi perde sempre è il Mezzogiorno, eretto a “laboratorio”. Ma in laboratorio ci sono le cavie che non fanno una bella fine, sia pure in nome di alti ideali dei cui risultati non beneficiano. E allora le domande sorgono spontanee.
A Roma, Torino, Milano e Bologna i dirigenti avrebbero accettato di convergere su un candidato del M5S, per quanto di qualità come Manfredi, senza colpo ferire? In una regione del Centro o del Nord si sarebbe buttato a mare il candidato, tra l’altro consigliere regionale e recordman di preferenze, a dispetto di un pronunciamento dei dirigenti locali avallato dal commissario regionale come è avvenuto in Calabria? È come se la Raggi, dopo il disastro da lei provocato a Roma e rilevato senza ambiguità dai democratici, si candidasse alla presidenza della Toscana trovando pure una sponda.
Viene il dubbio che siamo davanti sempre alla stessa storia: gruppi dirigenti nazionali che non hanno rispetto del Mezzogiorno e gruppi dirigenti meridionali che non hanno rispetto di se stessi, tanto da accettare di tutto senza batter ciglio. I “laboratori politici con i posteriori altrui” sono quelli che hanno “catapultato” nelle regioni meridionali candidati centro-settentrionali mai visti sui territori. Sono gli stessi, ancora, che producono voti in vista dei congressi che determinano equilibri nazionali ma dove non c’è mai un leader meridionale che passi “all’incasso”. I microleader meridionali preferiscono accontentarsi delle briciole. E il risultato è una Napoli periferica e dolente e una Calabria ridotta come solo le regioni più povere della Bulgaria.
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