Prima di entrare nel merito preciso perché voto no e poi cercherò di precisare meglio quelli che definisco i danni irreversibili non solo al nostro sistema democratico ma alla possibilità di abbattere, una volta per tutte, la drammatica ghettizzazione del Mezzogiorno. Ebbene, in modo sintetico riporto di seguito i motivi che mi portano a votare no. Primo: la proposta è partita dal Movimento 5 Stelle che, in più occasioni, ha dimostrato di non credere nella forma di Repubblica parlamentare che caratterizza la nostra Costituzione.

Una serie di atti testimonia una simile mia convinzione: la sudditanza alla cosiddetta Piattaforma Rousseau per ogni scelta della linea politica; il ruolo marginale del Parlamento in questi due anni di governo Conte, in questi due anni di dominanza del M5S in cui praticamente si sono votati solo, ripeto solo, decreti legge blindati e quindi con un coinvolgimento inesistente del Parlamento. Secondo? Non ha senso varare una riforma del Parlamento senza definire prima: la legge elettorale e la riforma interna della Camera e del Senato.

Per quanto concerne la riforma elettorale non solo è fondamentale, ma deve necessariamente essere concepita contestualmente per evitare che molte realtà territoriali del Paese non siano rappresentate in Parlamento, mentre per la riforma dei regolamenti della Camera e del Senato è fondamentale definire da subito la nuova articolazione delle Commissioni. D’altra parte il Partito democratico aveva votato sempre no alla riforma proposta dal M5S e aveva accettato poi di votare sì con la precisa condizione che prima del referendum venisse varata la nuova legge elettorale. Quest’ultima condizione non è stata onorata per cui, ancora una volta, emerge la ormai inconsistenza politica del Pd.

Cambiano in modo rilevante il numero di elettori del presidente della Repubblica, cioè si ha uno squilibrio tra parlamentari e grandi elettori. Oggi l’incidenza dei grandi elettori si attesta su un valore del 4%, nel nuovo Parlamento si supera il 7. Per assurdo, se le Regioni dovessero avere schieramenti politici uguali, questa aggregazione esterna al Parlamento potrebbe diventare determinante nella elezione del presidente snaturando così il mandato elettorale che gli elettori hanno dato ai parlamentari eletti. Ma tutto questo potrebbe rimanere un semplice sfogo di chi da tempo denuncia l’incapacità politica e istituzionale delle compagini di governo che si sono succedute negli ultimi due anni, da parte di chi ha in più occasioni ricordato la schizofrenia camaleontica del M5S.

Solo a titolo di esempio ricordo la continua altalena su scelte strategiche come: no Tav, sì Tav; no Tap, sì tap; no Ilva, sì Ilva e così via. In realtà, invece, il mio non è uno sfogo, non è una banale decisione di schieramento ma una convinta analisi dei danni che un Parlamento ridimensionato, che un Parlamento privato di componenti rappresentative di aree come quelle del Mezzogiorno possa, in modo gattopardesco, mantenere inalterate le rendite di posizione che sono ormai diventate enormi. In proposito solo un dato: il reddito pro capite annuale di un cittadino di Varese supera i 40mila euro, quello di un cittadino di Caltanissetta si attesta su 17mila.

E l’attuale governo, l’attuale maggioranza fa a gara nel regalarci comunicati ormai giornalieri sull’impegno ad assicurare il 34% delle risorse del Recovery Fund al Mezzogiorno, poi qualche altro ministro parla del 40, un altro addirittura del 50. Una vera rincorsa ridicola che termina leggendo il documento presentato il 9 settembre scorso presso il Comitato interministeriale per gli Affari europei. Mi riferisco alle linee guida del Piano nazionale Ripresa e Resilienza dove, leggendo attentamente i criteri di valutazione negativi sulle possibili proposte, si scopre che, come da me più volte anticipato, i possibili progetti di infrastrutturazione del Mezzogiorno da supportare con le risorse del Recovery Fund sono pochissimi, forse non superano i quattro miliardi di euro, soprattutto se si tiene conto che si è deciso di non dare attuazione all’unica opera pronta come il collegamento stabile tra la Sicilia e il Continente.

A parte il vuoto completo di interventi nel Sud del Paese, questi criteri rispondono ad una chiara logica, quella del “tasso di ritorno economico”, dell’ “impatto duraturo sul pil”, cioè di indicatori tipici di quella pseudoanalisi costi-benefici invocata dal M5S e dal professor Marco Ponti per bocciare opere come il tunnel ferroviario Torino–Lione, gli assi ferroviari AV/AC Genova–Milano (terzo valico dei Giovi), l’asse ferroviario AV/AC Brescia–Verona–Vicenza–Padova o l’asse AV/AC Napoli–Bari e Salerno–Reggio Calabria. L’ho definita “pseudoanalisi” perché intrisa di una chiara pregiudiziale negativa a tutto ciò che reinventa in termini infrastrutturali un Paese privo di determinate reti, di determinati collegamenti e il cui ritorno economico non può ottenersi in un arco temporale limitato.

Ora mi chiedo questa chiara e misurabile mia denuncia come potrà essere gestita da un Parlamento in cui la incisività numerica e rappresentativa del Mezzogiorno viene praticamente ulteriormente ridimensionata e, cosa davvero drammatica, sono sicuro che si esaspereranno automaticamente gli schieramenti del Centro-Nord e del Sud e, in modo irreversibile, si perderà la “coscienza Paese” di ritenere il territorio spazio geoeconomico e non banale assetto geografico. Un Parlamento ridimensionato, in realtà, perderà la lungimiranza tipica di un consesso ampio e, quindi, preferirà supportare iniziative di tipo assistenziale e prive di un respiro strategico, preferirà cioè scelte con impatto e ritorno immediato.

Cosa ancor più grave, come detto prima, è da ricercarsi nel non aver fatto contestualmente la riforma elettorale e la riforma dei regolamenti del Parlamento; oltre a creare problemi nella definizione dei collegi elettorali produrrà gravi penalizzazioni nel lavoro delle Commissioni con contestuale ritardo nell’emissione dei relativi pareri. Anche in questo caso chi, come detto prima, subirà i danni più rilevanti sarà ancora una volta proprio il Mezzogiorno che non ha bisogno di banale assistenzialismo ma di infrastrutture funzionali, il Mezzogiorno che ha bisogno di occupazione concreta e non di inutili e inefficaci provvedimenti come il reddito di cittadinanza. Svuotare il Parlamento, quindi, genererà automaticamente un ritorno ai localismi, un ritorno alla polverizzazione delle scelte, un ritorno alla logica del più forte, un ritorno irreversibile al blocco della crescita del Mezzogiorno e dell’intero Paese.