I liberali e i socialdemocratici spesso reagiscono con un moto di autentica sorpresa quando vedono milioni di persone che vivono in situazioni di svantaggio economico e materiale votare per i partiti conservatori, cioè per le forze politiche che contribuiscono a difendere l’ordine sociale che contribuisce a perpetuare proprio quelle situazioni. Eppure, basterebbe guardare al problema dalla prospettiva di un filosofo conservatore come Michael Oakeshott: i poveri desiderano prima di ogni altra cosa familiarità e stabilità, perché guardano al cambiamento come a una minaccia piuttosto che come a una promessa. Per questo si affidano ai partiti impegnati a difendere i valori tradizionali e le vecchie certezze, che trovano un’efficace sintesi nella triade “Dio, Patria e Famiglia”.

Il successo del tradizionalismo conservatore appare, in questo senso, come una reazione ai cambiamenti che sembrano sovvertire consuetudini nel lavoro e negli stili di vita oramai consolidati e interiorizzati. Nella critica di chi si batte per riaffermare i valori tradizionali, al liberalismo viene così addebitata tutta una serie di colpe: tra queste, spicca la sua (presunta) vocazione nichilista, dannosa per la spiritualità e la religione e, quindi, responsabile della desacralizzazione della vita. L’opinione ricorrente è che la democrazia liberale soffra di una povertà esistenziale, nel senso che l’assenza di tradizioni di natura etica collettivamente vincolante lascia le persone disorientate perché prive di orientamenti stabili di valore.

Gli intellettuali conservatori sottolineano con sempre maggiore insistenza l’importanza di contrastare la liquefazione “nichilistica” di usi, costumi, tradizioni e consuetudini capaci di restituire ai cittadini il senso di stabilità assicurato da un ordine che resiste ai cambiamenti. E ciò attraverso una retorica identitaria e nazionalistica che non esita ad appellarsi alla religione quale antidoto a una modernità fuori controllo. L’ossimoro “atei devoti”, cioè coloro che, pur dichiarandosi atei, si impegnano a difendere tradizioni e contenuti della fede religiosa, non è più di moda, ma da qui all’equiparazione tra democrazia liberale e nichilismo il passo è breve.

Intanto, per cominciare, occorre ricordare che la democrazia liberale è intrinsecamente laica, non atea. La democrazia liberale non si impegna in dibattiti sulle dottrine religiose, e ciò significa che si astiene dall’esprimere giudizi in merito alla loro ragionevolezza, plausibilità o valore, a meno che le dottrine non siano considerate dannose per la libertà e la sicurezza dei cittadini. Anche l’ateismo rientra nella categoria delle dottrine metafisiche o “comprensive”, e non può dunque essere invocato nei dibattiti pubblici della democrazia liberale, più o meno nello stesso modo in cui vanno escluse le dottrine religiose. Naturalmente teisti, agnostici e atei dovrebbero avere pari diritto di partecipare ai dibattiti su qualsiasi questione di interesse pubblico, alla sola condizione che esprimano le proprie opinioni nel linguaggio della ragione pubblica.

I punti di vista basati su tradizioni e dottrine religiose, esattamente come i loro contrari, non possono essere considerati pertinenti per deliberare sugli affari pubblici: non solo in virtù della loro natura divisiva, ma soprattutto perché sono espressione di una preferenza di parte. Così facendo, la democrazia liberale implica che nelle società libere, non teocratiche o comunque non totalitarie, l’elaborazione delle politiche avvenga per consenso ottenuto tramite compromessi piuttosto che per sottomissione ad autorità inattaccabili, siano esse espressione di una Verità rivelata oppure imposte dalle cosiddette ferree leggi della storia. Infatti la neutralità sostenuta dalla democrazia liberale nei confronti della metafisica, sia essa laica o religiosa, è esattamente ciò che salvaguarda i diritti di tutti di coltivare (in privato o in pubblico) la propria fede, nonché la possibilità di restare insensibili al pungolo dell’eredità religiosa qualora si desideri farlo. Nonostante la sua neutralità rispetto alle dottrine “comprensive”, tuttavia, la democrazia liberale non è moralmente senza spina dorsale, né manca di sufficienti coordinate spirituali, come affermano coloro per i quali estendere la cerchia della simpatia umana al di là dei confini della famiglia, della tribù, della religione e dell’etnia equivale a spianare la strada all’avvento di un nichilismo dedito a distruggere i valoro tradizionali.

Al contrario, la democrazia liberale si alimenta di ideali e valori che risultano incompatibili con la nostalgia reazionaria verso un’antimodernità fondamentalistica. Valorizza, infatti, la tolleranza, il pluralismo e l’argomentazione razionale, nonché rispetta i valori fondamentali come la libertà di parola, la separazione dei poteri e la tutela dei diritti individuali. Ovvero, detto in sintesi, la democrazia liberare si ispira ai princìpi della laicità: l’autonomia della norma giuridica rispetto alle norme religiose; l’esclusione di ogni prevaricazione del potere religioso sul potere civile, così come di ogni invadenza del potere civile sulle confessioni religiose; il riconoscimento e la garanzia delle varie espressioni della libertà religiosa e del pluralismo delle culture e delle tradizioni. Altro che “nichilismo”: questi princìpi sono alla base del costituzionalismo liberaldemocratico e del rifiuto sia dello Stato etico sia di ogni ideologia di Stato, sia, anche, di quella “messa in libertà” della comunicazione che nella modernità sottopone a verifica critica tutte le norme e tutti i valori.

Edoardo Greblo, Luca Taddio

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