Il recente intervento del presidente Giuseppe Santalucia davanti al parlamentino dell’Anm sui quesiti referendari suscita non lievi perplessità, apparendo quanto meno inopportuno. Santalucia, nell’annunciare una «ferma reazione», ha dichiarato che il fatto di portare avanti il tema referendario «fa intendere la volontà di chiamare il popolo ad una valutazione di gradimento della magistratura, quasi a voler formalizzare e cristallizzare i risultati dei vari sondaggi di opinione che danno in discesa l’apprezzamento della magistratura».
Egli paventa, in sostanza, che attraverso l’uso del referendum si vogliano processare i giudici. Non è ben chiaro a quale titolo il rappresentante di un’associazione privata, rappresentativa degli interessi sindacali di una categoria professionale quali sono appunto i magistrati, invece di fare una seria autocritica sulle ragioni dell’attuale grave crisi di credibilità dell’istituzione di cui fa parte, pretenda di stigmatizzare il legittimo esercizio di uno strumento di democrazia diretta, accusando in sostanza di populismo le forze politiche che hanno promosso i referendum. Premessa l’assoluta legittimità del giudizio che i cittadini esprimeranno sui quesiti referendari, qualunque possa essere il loro esito, non possiamo tuttavia esimerci dal formulare una opinione negativa su quasi tutti i quesiti stessi.
Il primo quesito riguarda la responsabilità civile “diretta” dei magistrati. La norma vigente già prevede che, seppure il cittadino danneggiato non possa chiamare direttamente in causa il magistrato, egli possa tuttavia rivolgersi allo Stato (soggetto peraltro ben più solvibile del singolo magistrato) il quale poi si rivarrà (in parte) sul magistrato stesso. I proponenti chiedono invece di introdurre la possibilità per il cittadino di chiedere il risarcimento dei danni direttamente al magistrato. Non possiamo che esprimere contrarietà rispetto a tale ipotesi, non certo per ragioni corporative, ma semplicemente perché ciò che conta, dinanzi a un eventuale errore grave del magistrato, è che egli ne risponda disciplinarmente e anche economicamente, ma sempre e solo nei confronti dello Stato. L’azione risarcitoria “diretta”, invece, rischia di condizionare gravemente la decisione del giudice, a fronte della non piacevole prospettiva di eventuali future azioni intentate da una delle parti in causa, magari ispirate da finalità solo strumentali o ritorsive.
Il secondo quesito è quello sulla separazione delle carriere: la conseguenza dell’eventuale approvazione del referendum sarebbe che il magistrato, una volta scelta la funzione giudicante o quella requirente, non potrebbe più passare dall’una all’altra. L’argomento è complesso e divisivo, ma va detto che ci troviamo di fronte a un falso problema: gli esperti di ordinamento giudiziario sanno bene che la separazione delle carriere, di fatto, già esiste da tempo, e questo grazie a una serie di “paletti” non solo territoriali che già adesso rendono estremamente improbabile che chi abbia fatto il pm possa decidere di passare nei ranghi della magistratura giudicante (e viceversa).
Il terzo quesito riguarda invece la custodia cautelare: i promotori chiedono che venga abrogata la norma del codice che prevede l’applicazione della custodia cautelare in carcere in caso di pericolo di reiterazione del reato. Tale quesito, se passasse, potrebbe segnare un pericoloso arretramento nell’attività di contrasto alla criminalità. Per chiarire la questione, basti un semplice esempio. Tizio, pluripregiudicato, viene identificato come autore di una rapina in banca grazie alle telecamere installate presso l’istituto di credito. Vistosi scoperto, decide di presentarsi in caserma e di confessare il delitto. Nel caso di specie non ci sarebbe il pericolo di fuga, perché il rapinatore si è costituito spontaneamente. Non ci sarebbe nemmeno il pericolo di inquinamento delle prove, perché ha confessato. Se dovesse passare il referendum, nonostante l’indubbio pericolo di reiterazione del reato, nelle more del processo egli verrebbe lasciato in libertà, con la concreta possibilità, quindi, che possa rapinare un’altra banca.
Quarto quesito: oggi un magistrato che vuole candidarsi al Csm deve raccogliere dalle 25 alle 50 firme di altrettanti elettori iscritti a una corrente. Attraverso il quesito si intende abrogare questo vincolo delle firme e dunque l’obbligo, di fatto, per un candidato di iscriversi a una corrente. I promotori del referendum sottovalutano, però, la pervasività delle correnti e la loro capacità di controllare i voti degli elettori, indipendentemente dal fatto che il candidato risulti o meno apparentato a questa o quella corrente. L’unica soluzione per contrastare la deriva clientelare resta il sorteggio temperato: si estragga a sorte una platea di candidati in possesso di determinati requisiti minimi (professionali e di anzianità) nella quale gli elettori potranno scegliere con il loro voto colui che meglio esprime la loro sensibilità sui delicati temi della giurisdizione e dell’autogoverno.