Era un gelido febbraio. Di ormai ventiquattro anni fa. Tra le sorde pareti del sanatorio londinese dentro cui era stata ricoverata, o forse meglio a dirsi reclusa, la drammaturga britannica Sarah Kane, giovanissima eppure già così dolorosamente matura, riuscì coi lacci delle scarpe in quella che appariva come la sua principale, poetica preoccupazione: aprire, per sempre, il sipario di un’arte che la imprigionava e accomiatarsi così da un mondo che – agghiacciante nella sua aridità – le appariva ormai privo di senso e di amore. E proprio l’amore, o meglio, la sua sofferta, fantasmatica assenza, la sua negazione struggente che simile alla notazione di Barthes che nella condizione dell’innamorato aveva scorto similitudine con quella dell’internato in un campo di concentramento, è stata la sostanza materica e narrativa della drammaturgia della Kane. Pochi hanno saputo riprodurre l’intensità, l’asfissia, la disperazione della condizione sofferente dell’essere umano davanti ciò che Blanchot definiva la solitudine dell’uomo davanti la vastità del cosmo quanto la giovane scrittrice inglese.

Drammaturga emergente dall’ondata degli ‘scrittori arrabbiati’, la Kane ha polarizzato le attenzioni, sovente feroci, della critica che all’inizio vedeva in lei soltanto un rumoroso Grand Guignol, non cogliendo al contrario quella commistione carnicina di influenze nobili e composite. Racine. Sofocle. Sade. Artaud e il suo teatro della crudeltà. Beckett. Bond. Shakespeare. Testi sacri, nelle loro parti più violente e scabrose. Cultura pop. Persona mite, gentile e di grandissima cultura, la Kane irradiava una rispettosa tristezza, ma del pari una grande determinazione e una altrettanto grande consapevolezza.

In particolare, tra le sue opere, ‘Dannati’ è una trasposizione dell’orrore della guerra che si materializza nel chiuso di una stanza, nella immersione di una coppia disfunzionale tra i propri fantasmi. Una coppia circondata da orrore e dinamiche di potere e profonda ipocrisia. Spesso insostenibile nella evoluzione carnografica, ‘Dannati’ ruota attorno al tema della impossibilità dell’amore, che la Kane riprenderà in ‘Purificati’, nel quale la condizione dell’innamorato verrà, barthesianamente, calata nel gorgo lavico di un campo di concentramento e nelle mani crudeli di un sadico medico, Tinker. E un monologo potentissimo sull’amore, senza fiato, un lunghissimo flusso di coscienza abbacinante è parte centrale di ‘Febbre’, la cui conclusione recita “non so come comunicarti qualcosa dell’assoluto eterno indomabile incondizionato inarrestabile irrazionale razionalissimo costante infinito amore che ho per te”.

Ma in particolare c’è un dramma che, alla luce del tragico suicidio della Kane, risulta di una abbacinante verità, di una consistenza che rasenta il vuoto del guardare nell’anima di chi si sta per accomiatare dal mondo. ‘Psicosi delle 4:48’.
Un monologo in crescendo verso l’occhio nero del nulla, che assembla la forma del vuoto in maniera insostenibile. “Sento il tuo dolore ma non posso prendere in mano la tua vita” afferma il lato rovesciato della mente, ruminando freddamente tra lampade neon e ambientazioni sonore alla Rachmaninov. Straziante nella sua evoluzione, ‘Psicosi delle 4:48’ è una scatola pregiata, ma nerissima. Un ciglio di baratro da cui guardare e sondare l’orrore della solitudine, nel baluginare cupo della più assordante delle epifanie, ‘una me che non ho mai conosciuto, il volto impresso sul rovescio della mia mente’.

L’opera teatrale della Kane in Italia è stata raccolta e pubblicata da Einaudi. Graham Saunders ha curato una intensa biografia dell’autrice, uscita nel 2005, ‘Amami o uccidimi – Sarah Kane e il teatro degli estremi’. ‘Psicosi delle 4:48’ ha destato interesse accademico, con uno studio monografico, ‘Le metamorfosi di Sarah Kane’, di Sara Soncini. Francesca Auteri nel 2019 ha pubblicato un monologo, ‘Ultime ore di Sarah Kane’, che si presenta come visione post-mortem della vita e della sofferenza della drammaturga. Perché quelle tende, ora, sono state aperte.