Il Presidente Amato aveva ammonito in diverse occasioni pubbliche che la sentenza avrebbe chiarito oltre ogni ragionevole dubbio i motivi della inammissibilità del referendum su alcune disposizioni repressive della legge antidroga del 1990. La lettura delle motivazioni conferma che la decisione è tutta politica: Questo referendum non s’ha da fare. La modestia delle argomentazioni impone di respingere al mittente l’accusa espressa da Amato nella conferenza stampa a caldo di avere sbagliato il quesito. Ora l’aggettivazione è arricchita, infatti sarebbe stato illusorio, fuorviante e inidoneo a raggiungere lo scopo di ammorbidire la persecuzione della cannabis.
L’errore scagliato in maniera irridente era di avere preso lucciole per lanterne, perché la cancellazione della condotta della coltivazione non riguardava la canapa ma il papavero e la coca, cioè le piante da cui si possono estrarre le droghe pesanti. In realtà l’errore marchiano della Corte era di connettere le diciassette condotte vietate descritte nel comma 1 dell’art. 73 del Dpr 309/90 con le tabelle I e III (contenenti le droghe pesanti), mentre il legame è con le pene per il reato compiuto, da sei a venti anni di carcere. La sentenza non può ristabilire la verità, perché chiarirebbe che la decisione si è fondata su un falso, quindi si arrampica sugli specchi, sostenendo che la canapa è ricompresa indirettamente, in quanto il comma 4 prevede per le condotte (compresa la coltivazione) riguardanti le tabelle II e IV una pena detentiva da due a sei anni. Non è così. La legge è scritta male, oltre che essere gravemente criminogena, ma è evidente che le diciassette condotte riguardano tutte le tabelle e le pene sono diverse per le droghe pesanti e leggere. A conferma di quanto sostengo sta il fatto che le condanne per le droghe leggere sono riferite al comma 1 e 4.
La Corte contesta lo slogan della campagna di propaganda, ma il titolo deciso dalla Cassazione e condiviso dal Comitato promotore è esplicito e non equivoco facendo riferimento alla abrogazione di disposizioni penali e di sanzioni amministrative relative alle sostanze stupefacenti e psicotrope. Non solo alla cannabis. Tralasciamo una parte sovrabbondante e inutile sulla legge Fini-Giovanardi cancellata nel 2014 dalla Corte Costituzionale. Viene ribadito con insistenza il vincolo dei criteri desumibili (sic) dall’articolo 75 della Costituzione, elaborati nel 1978 con la sentenza n. 16: il ventaglio dilatabile come una gomma americana va dalla chiarezza alla omogeneità, dalla univocità a una matrice razionalmente unitaria. Caratteristiche usate molto spesso arbitrariamente per cassare richieste referendarie scomode. Si dice che il quesito deve consentire ai cittadini una scelta libera e consapevole; a parte l’atteggiamento paternalistico, di tutela di incapaci di comprendere la posta in gioco, questa volta la domanda era chiara e limpida: Volete limitare i danni della guerra alla droga? Troppo accecante.
Siamo stati chiari nella scelta della eliminazione della fattispecie della coltivazione che nella giurisprudenza dei tribunali e della Cassazione riguarda quella forma domestica e artigianale caratterizzata dallo scarso numero di piante (spesso tenute sul balcone) appare destinata all’uso personale; lo scopo era di sancire una depenalizzazione circoscritta a una modalità precisa. Viene imputato il fatto di avere lasciato il divieto generale di coltivazione di tutte le piante, ma se l’avessimo tolto la bocciatura del referendum sarebbe stata ancora più netta. In realtà la coltivazione massiva e delle piante da cui secondo la Corte si ricavano le droghe pesanti sarebbe rimasta penalizzata avendo ben presenti le altre sedici condotte (produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede o riceve, a qualsiasi titolo, distribuisce, commercia, acquista, trasporta, esporta, importa, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo o comunque illecitamente detiene). Per la Corte l’architrave della repressione sta invece nella coltivazione della canapa. È la conferma che l’erba è davvero una pianta maledetta.
La Corte sbrigativamente sostiene che i vincoli internazionali rendono impossibile il referendum e ferma il tempo a sessant’anni fa. Il mondo è cambiato, le Convenzioni dall’Onu sono state ridimensionate a uno strumento flessibile e non rigido, affidato al giudizio degli Stati. La Corte ignora che l’Uruguay e il Canada hanno addirittura legalizzato la produzione e la vendita di cannabis senza conseguenze rispetto alle norme delle Convenzioni? La Corte non sa che l’eventuale violazione dei sacri testi della proibizione non prevede sanzioni? La Corte si preoccupa di essere accusata di basarsi sulla normativa di risulta per l’inammissibilità, ma è proprio così. Infatti la Corte sostiene che il referendum proponeva la cancellazione della pena del carcere per le violazioni legate alla cannabis, ma denuncia la contraddizione di avere mantenuto la pena carceraria per i fatti di lieve entità.
Il quinto comma dell’art. 73 riguarda sia le droghe pesanti che quelle leggere (comma 1 e 4), sarebbe stato ingiusto cancellare la possibilità di una sanzione (da sei mesi a quattro anni) più contenuta per fatti lievi riguardanti le droghe pesanti. D’altronde essendo una fattispecie autonoma, qualunque giudice l’avrebbe utilizzata per i fatti relativi al comma 1. Bontà sua la Corte non eccepisce nulla rispetto alla cancellazione del ritiro della patente, norma vessatoria e discriminante, ma purtroppo una sentenza della Corte del 2014 (n. 12) ha stabilito che il quesito non si può scindere e quindi non offre possibilità di soluzioni intermedia tra il rifiuto e l’accettazione integrale della proposta abrogativa. Peccato, neanche un contentino è concesso!
Che dire? La Corte Costituzionale di Amato ha dato uno schiaffo ai firmatari del referendum e ha inferto un duro colpo alla fiducia nelle Istituzioni. Il Parlamento da venti anni tiene chiuse nei cassetti le proposte di riforma della legge sulle droghe. Che fare? Occorre una azione incisiva per riaffermare i principi della Costituzione e i valori dello stato di diritto che devono valere anche per la Consulta. “Non Mollare” rimane il nostro motto, dell’intransigenza di fronte al potere.