L'editoriale
America first, la strategia di Trump per la rielezione
In questi giorni in cui tutti ci sforziamo di vedere il bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto della cosiddetta fase due, c’è anche chi teme il bicchiere mezzo rotto. Se sfogliate i siti analitici o parlate con i diplomatici o se siete abbonati a qualche serio think tank, potrete vedere quanto le preoccupazioni tendano ad accumularsi lungo un sentiero di tortuoso pessimismo, anche se nessuno si sente di fare il profeta di disgrazie irrimediabili come quelle di una guerra per errore, o di una nuova pandemia esponenziale e mutante contro cui nessuno è attrezzato. Se si pensa al modo misterioso e contorto per cui scoppiò centosei anni fa la prima grande guerra che investì il mondo intero senza una vera ragione, accompagnata da una pandemia altrettanto mostruosa, la influenza “Spagnola”, si può soltanto ringraziare l’intelligenza e la tecnologia umana per la velocità di calcolo e una maggiore abitudine alla razionalità che oggi ci permettono di essere appena un po’ meno angosciati di quanto non lo fossero i nostri bisnonni. Ciò che tutti i governi occidentali e la loro “intelligence community” temono oggi sono due possibili rischi: il ritorno inferocito della pandemia come accadde cento anni fa, oppure una mossa azzardata di qualcuno degli attori mondiali, in particolare la Russia con una leadership costretta al continuo rilancio come risposta alle difficoltà economiche e al declino della popolarità.
La Russia è in questo momento colpita da una tremenda crisi: priva di una sua propria vitalità tecnologica come quella cinese, l’erede dell’antica Unione Sovietica è stata colpita dalla mazzata imprevista del crollo del prezzo del petrolio che ha reso i suoi barili leggeri e inutili. Per questo ha un bisogno disperato dell’Europa. La Russia inoltre, benché sia ossessionata dall’antiamericanismo, è ancora più ossessionata dal pericolo cinese, cosa che è dimostrata da molte iniziative puramente propagandistiche di Mosca, come la famosa e del tutto stravagante passeggiata italiana – consentita dal nostro governo sulla base di calcoli molto volatili – dell’Armata Rossa venuta a portarci il soccorso di un centinaio di suoi medici militari, cosa che abbiamo già ricordato ma che assume un maggior valore se si mette questa curiosità di fronte all’altra, di fonte cinese, per cui la propaganda di Bejing mostra filmanti di deliranti folle italiane grate al loro governo: sono filmati di pura propaganda, ma valgono quanto l’incredibile spot dei camion militari russi a passeggio sulle nostre autostrade nello stupore e imbarazzo generale.
Sull’altro fronte domina isolata e isolazionista, e felice del proprio isolazionismo sfrontato e dispettoso, l’America di Donald Trump. Ed è molto curioso con quanta distrazione e superficialità la nostra informazione cartacea e televisiva si contenti di sottolineare un elemento del tutto inesistente o meglio artificialmente fabbricato: la follia, l’improntitudine e la capricciosità del presidente americano. Naturalmente tutti i migliori analisti, a cominciare da George Friedman, sanno spiegare in termini logici e calmi quanto sia ordinata la presunta follia di Trump, che punta alla rielezione alimentando un elettorato che si è allevato con cura in questi anni e che non corrisponde più all’elettorato repubblicano conservatore, ma a un ceto medio furioso contro la politica – e Trump, incarna paradossalmente l’antipolitica – che vuole rivoluzionare gli Stati Uniti. Secondo Friedman gli Stati Uniti, essendo una società artificiale che vive su un pianeta separato dal resto del mondo, e che è felice a casa sua, contengono nel proprio genoma un elemento di voluta instabilità che obbliga a un rinnovamento, quasi una rivoluzione, secondo un ciclo poco meno che secolare. È lo stesso fattore per noi bizzarro e invece logico, del Secondo emendamento che vuole i cittadini armati come partigiani.
Grosso modo, sostiene questa corrente di pensiero, gli americani hanno cicli vitali di rancore profondo e di rivoluzione permanente, che soltanto chi conosce l’America dall’interno sia rurale che urbano, è in grado di vedere. Sono cicli che vanno dalla guerra d’indipendenza alla guerra civile, dalle guerre mondiali alla guerra fredda e che tende a una nuova fase che Trump ha battezzato col nomignolo che ha irritato noi europei, quello dell’ America First, che vuol dire che gli Stati Uniti sono stanchi di pagare per l’altrui sicurezza, come è accaduto con la Germania diventata florida grazie al risparmio sulle spese militari. È quella l’America che si ritira da ogni angolo del mondo – altro che neo-imperialismo – badando soltanto al proprio interesse, che si riduce poi ad un solo elemento: la difesa delle rotte commerciali marittime, da cui deriva l’annoso confronto con la Cina nel Mar cinese del Sud, dove Bejing insiste nel creare isole artificiali con aeroporti e strutture, pretendendo di spostare il limite delle proprie acque territoriali.
Ma sembra chiaro- osservando il bilancio tra i reciproci interessi – che “la Guerra di Troia non si farà”, come Jean Giraudoux intitolava una famosa pièce teatrale: gli Stati Uniti hanno bisogno della Cina per vivere meglio, non meno di quanto la Cina abbia bisogno di loro: la partita a scacchi in corso per ora sembra nelle mani di giocatori scaltri e responsabili, ma il fattore umano, come scriveva Graham Greene, è un elemento imponderabile quanto le revolverate di Sarajevo nel 1914. Fra i segnali di possibile disastro, nelle ultime 48 ore si registra l’attacco di hacker cinesi contro i super computer occidentali cercando i dati necessari per la strana battaglia di queste settimane: il vaccino contro Covid19. Fare il vaccino è concettualmente e praticamente non difficile, ma quel che conta è il tempo e il tempo è determinato dalla quantità dei casi, che sono raccolti e computerizzati.
In questa corsa è in testa l’America, seguita dal Regno Unito (con una appendice italiana a Pomezia) ma la Cina cerca di compiere una gigantesca opera di distrazione di massa arrivando prima al vaccino da produrre e distribuire al mondo per cancellare gli effetti dell’accusa planetaria contro la Cina stessa come colpevole del disastro per aver nascosto l’inizio della pandemia, essersi tenuta a lungo le informazioni e aver accumulato una enorme quantità di materiale medico, respiratori, mascherine e macchine ospedaliere, con cui sottomettere le necessità mondiali. Trump ha colto l’occasione per delegittimare l’Organizzazione mondiale della Sanità che è una agenzia delle Nazioni Unite che si è comportata in modo sfacciatamente filocinese e l’accusa è sostenuta dall’intero fronte occidentale di cui non fa più parte l’Italia, nell’irrilevanza generale.
Ultimo rompicapo, la morte improvvisa e non chiarita del giovane e aitante ambasciatore cinese a Tel Aviv che aveva appena giocato per conto del suo governo una mano fortemente ostile al governo israeliano. Bejing dopo una prima impennata di malumore ha rinunciato a mandare una squadra di investigatori cinesi in Israele e ha archiviato per ora il caso. Trump si comporta come se, oltre ad essere il presidente, fosse il medico di famiglia degli americani consigliando un farmaco antimalarica di dubbia efficacia, ma più che altro ha scatenato tutte le immense forze scientifiche e produttive americane sulla realizzazione del vaccino da produrre e distribuire in miliardi di dosi. Cosa che ha fatto impazzire la borsa di Wall Street che è tornata a schizzare verso l’alto come non accadeva da mesi. Con aria sorniona il detestato e zazzeruto presidente dichiara: «I want the people of this nation to feel good. I don’t want them to be sick». Voglio che la gente stia bene, non che si ammali. E risale per ora la china dei consensi.
© Riproduzione riservata