Si può essere populisti di sinistra? Si può riconoscere l’illuminismo – per Giorgia Meloni la causa di tutti i mali! – come la nostra uscita dallo stato di minorità, e pure nutrire qualche dubbio sull’illuminismo, sulla trasformazione della Ragione in un altro mito (come dicevano Adorno e Horkheimer) che riduce il mondo a materia da dominare? Personalmente mi sento sia populista che antipopulista. Cerco di spiegarne i motivi. Mi sento, a metà, populista perché la differenza tra intellettuali e gente comune è assai meno consistente di ciò che si pensi. La cultura, per quanto importante, non scava un abisso tra le persone, e ciò dovrebbe anzitutto vietare qualsiasi supponenza da parte degli intellettuali. San Tommaso distingueva tra intelletto attivo e intelletto passivo (o potenziale).

Il primo ce l’hanno solo alcuni, ma il secondo ce l’hanno (fortunatamente) tutti. Perciò non esiste quell’abisso. A volte anche negli intellettuali “professionali” l’intelletto resta potenziale, salvo un’apparenza di simulazione di intelletto attivo. Il barista o il meccanico di moto di Testaccio (quartiere dove abito) può dire nel corso di una qualsiasi conversazione più cose intelligenti di Cacciari o di Agamben o di Rovelli (i quali una volta che hanno avuto una intuizione magari notevole, possono benissimo ritornare nella inattività dell’intelletto possibile!). Se tutti disponiamo dell’intelletto passivo, la nostra mente allora non è mai una tabula rasa, dunque tutti potenzialmente possiamo gestire la cosa pubblica, come la famosa cuoca di Lenin, come un bibitaro dello stadio, a patto che riusciamo ad attivare l’intelletto passivo.

Peraltro mi considero, per l’altra metà, antipopulista perché ci sono tanti “popoli” in giro, e un popolo amorfo, emotivo, manipolabile come la massa attuale, è “stupido”, come riteneva Flaubert. Esistono innumerevoli tipologie di “popolo”, e siccome un populista ritiene sempre di parlare a nome del popolo, dovrebbe ogni volta specificare a quale popolo fa riferimento. Per il populista russo Herzen si identificava con le comuni rurali, per Jack London con il “popolo degli abissi”, i poverissimi dell’East End londinese, per Orwell con la piccola borghesia d’antan e i suoi valori di lealtà e decoro, per il peronismo (non a caso declinato sia a destra che a sinistra) con i diseredati contro le oligarchie esterofile. Populisti sono stati Pisacane e Chavez. C’è popolo e popolo: quello attivo delle democrazie e quello amorfo, manipolabile delle autocrazie. E spesso si chiamano “populisti” leader che invece semplicemente sono “demagoghi”, come ha osservato Gianfranco Bettin. Lo dico proprio perché mi sento, almeno in parte, “populista”.

Jean-Claude Michea (pubblicato da Neri Pozza ed Eleuthera), un autore populista e di sinistra (si richiama tra l’altro a Pasolini), assume a bersaglio la sinistra spregiudicatamente moderna o liberal, ironica e cosmopolita. Soprattutto: intende sganciare la sinistra autentica dall’illuminismo, dato che il socialismo nasce nell’’800 senza rifarsi specificamente ai lumi ma in relazione con i movimenti operai, popolari, luddisti, anarco-sindacalisti, etc. E infatti dell’illuminismo rifiuta l’individualismo egoistico, l’idea di una libertà individuale tendenzialmente sfrenata, che per lui si traduce nella libertà sovrana del consumatore, incurante di tabù, frontiere, vincoli, scrupoli morali, etc.

Michea contrappone alle élite liberali, giovanilistiche e “di sinistra” che secondo lui governano oggi il mondo (il settore dello spettacolo, la TV, la pubblicità, insomma che plasmano l’immaginario planetario) il caro vecchio “popolo”, il quale certo non è immune da sciovinismo, e mentalità gretta, però conserva per lui due valori preziosi per qualsiasi sinistra: il senso del limite e la comunità. Un discorso trasversale: ad esempio da noi, potrebbe intercettare elettori sia di Fratoianni che della Meloni, i quali pure si ispirano a “popoli” diversi! Ora, secondo me Michea ha ragione e ha torto.

Michea ha ragione quando sottolinea come la spocchia radical chic discende dall’illuminismo, da chi pretende di essere superiore agli altri in virtù dei suoi consumi culturali, e ha ragione anche quando nota che l’ideologia dominante è quella – dissacrante – di uomini di mondo ben contenti di non appartenere a niente, illimitatamente flessibili e in movimento, innamorati di innovazione e trasgressione. Ha torto quando dimentica che dall’illuminismo e dalla modernità ci viene altresì il valore fondamentale dell’individuo, con il suo nucleo inviolabile (che antecede la collettività cui appartiene, sia essa famiglia o clan), ). Come sapeva bene il suo maestro riconosciuto Orwell.

L’individuo non è una monade asociale o il borghese calcolatore, ma colui che dice no al potere, che si ribella e che decide di riconoscersi ogni volta nella comunità che lo rispecchia, anche prefigurandola (“Mi rivolto, dunque siamo”, Camus). E dall’illuminismo ci viene altresì l’idea universalistica dei diritti umani, superiori a tradizioni locali e costumi tribali (perciò non va “rispettata” l’infibulazione, pur essendo una pratica antichissima). Il “popolo” a nome di cui parla Michea, e cioè una comunità solidale che crede nella famiglia, nell’amicizia, in relazioni durevoli e nel lavoro ben fatto, oggi è a sua volta una proiezione. Si tratta solo di minoranze, quasi l’ultima memoria del “popolo” di una volta, tra le macerie del postfordismo e dentro una modernità sempre più liquida. Il punto è che mancano oggi le condizioni materiali in cui poteva formarsi quel “popolo”.

Oggi la destra identifica le radici con la patria intesa in senso angustamente nazionalistico (confini da difendere contro improbabili invasioni!), mentre la sinistra non si pone neanche più il problema delle radici. E invece il bisogno umano di radicamento resta fondamentale. Solo che questo radicamento non è più garantito e non è più esclusivamente territoriale: va cercato liberamente – da parte dell’individuo (così inviso a Michea!) – in quella tradizione che più gli somiglia, senza un’appartenenza segnata da sangue e suolo, ma scegliendo una identità al tempo stesso multipla – come è oggi l’identità di ciascuno di noi -, e però fatta di una materia non friabile, che possiamo condividere con altri. In definitiva il “popolo” per cui, da semi-populista, io parteggio, è formato da individui singoli, non omologati, indocili (e dal loro intelletto potenziale).