Uno spettro si aggira per le aziende: la gentilezza. Negli ultimi cinque anni moltissime organizzazioni hanno adottato progetti di leadership gentile o promosso la gentilezza a vari livelli. Al netto della moda, le intenzioni sono lodevoli: la gentilezza è vista come uno strumento capace di migliorare il clima lavorativo e incrementare la produttività. Rispetto reciproco e ascolto empatico sono preferibili all’autoritarismo, favorendo fiducia e positività. In molti casi la gentilezza appare come un tentativo di restituire dignità ai lavoratori come persone. Phillips e Taylor – nel loro “On Kindness” – sottolineano come per anni sia stata considerata una virtù dei deboli, quasi da nascondere.

Il superpotere

Oggi, invece, è celebrata come il “superpotere” manageriale. Tuttavia un recente articolo apparso nei giorni scorsi sulla rivista scientifica Nursing Ethics firmato da Damien Contandriopoulos, Natalie Stake-Doucet e Joanna Schilling, “Finta gentilezza e violenza simbolica”, offre una visione critica e insolita. Dopotutto, chi oserebbe mettere in guardia le persone contro questa moda della gentilezza? Aristotele definì la gentilezza come la disponibilità verso qualcuno nel bisogno, non per interesse personale o tornaconti, ma per il bene esclusivo dell’altro. L’altruismo era il principio fondante. Ma oggi è spesso svuotata di questa componente: essere gentili non implica più necessariamente aiutare l’altro in modo disinteressato. Molte volte la gentilezza viene esibita per un vantaggio personale o anche solo per rendere più facile il proprio lavoro. Questo tipo di comportamento, privo di vero altruismo, viene definito “falsa gentilezza”. È la gentilezza dei modi e non della sostanza o del fine.

In termini etologici, la gentilezza “fake” si manifesta attraverso comportamenti accoglienti e distensivi che facilitano la relazione, ma non per altruismo genuino. Gli autori dell’articolo citano esempi letterari come Dolores Umbridge in Harry Potter o l’infermiera Mildred Ratched di Qualcuno volò sul nido del cuculo: gentili nei modi, ma senza alcun riguardo per l’altro. Questo porta a distinguere tra diversi tipi di gentilezza. Possiamo avere una persona gentile che con modi discutibili si preoccupa realmente dell’altro e al contrario modi perfetti che trasvestono un disinteresse per l’altro. Purtroppo per loro, la sensazione che non siano sinceri anticipa il loro comportamento e le persone se ne accorgono (presto o tardi).

Dalla sostanza alla forma

C’è poi il tema della “tirannia della gentilezza”. Alcuni autori lo utilizzano per descrivere la pressione che molte persone, in particolare nelle professioni assistenziali, subiscono nel recitare continuamente un copione di gentilezza. Ad esempio, secondo Kim Walker, l’immagine diffusa è che un “buon infermiere debba essere un infermiere gentile”, immagine non solo stereotipata, ma distorta e riduttiva. Nelle aziende, e non solo, siamo passati dalla sostanza alla forma. Lavorare sull’apparenza è più semplice: è più facile modificare l’esterno che l’interno.

Tuttavia questo cambiamento sacrifica spesso l’autenticità. Tutti desideriamo essere trattati con gentilezza, vogliamo credere che dietro quel comportamento ci sia un interesse genuino verso di noi. Siamo pronti a illuderci e a ignorare quando la gentilezza diventa uno strumento per ottenere un tornaconto. Che sia una recensione a cinque stelle o, più banalmente, convincerci a fare qualcosa che non desideriamo. L’errore è barattare l’altruismo per un briciolo di cortesia. La vera “rivoluzione gentile” non si farà cambiando i modi, ma riportando l’altro al centro della nostra vita.