Andrea Graziosi insegna storia contemporanea all’Università Federico II di Napoli. Dopo aver studiato l’economia e la storia del lavoro in Italia e negli Stati Uniti è diventato uno dei massimi esperti di storia dell’Unione sovietica. Con i suoi ultimi libri (“Il futuro contro” del 2019, “L’Ucraina e Putin tra storia e ideologia” del 2022 e “Occidenti e modernità” del 2023) ha disegnato un quadro complesso delle sfide del nostro tempo.

Professor Graziosi, per quali ragioni storiche e culturali il riformismo fatica ad attecchire in Italia?
«Fino ai primi anni Novanta la difficoltà del riformismo consisteva nel fatto che progresso e benessere stimolavano ideologie e illusioni. È stato così con il comunismo o con i movimenti legati al Concilio Vaticano II. Il riformismo, che è realismo, era allora indebolito dalle utopie. Ora le difficoltà sono diverse. Il mondo occidentale affronta una crisi. E il riformismo, che fa i conti con la realtà, risente dell’impopolarità della realtà. Un esempio? Macron che prova a spiegare che non si può più andare in pensione a sessant’anni».

E quindi che si fa?
«Bisogna sforzarsi di parlare e spiegare. Certi vantaggi, che abbiamo chiamato diritti, sono destinati a ridursi, e bisogna “riconoscere” chi rimpiange quel passato. Occorre trovare il modo di far capire la necessità di cambiare a chi è conservatore perché vuole conservare cose positive, che possono durare solo se ripensate».

Joe Biden ha formulato la nuova dicotomia globale tra democrazie e autocrazie. Una sfida che impegna anche i riformisti contro il sovranismo.
«La divisione tra mondo libero e “totalitarismi” esisteva già. Biden l’ha riformulata bene. E il declino dell’Occidente non ha portato fortuna a chi si sviluppa: prima si guardava alla Svezia, ora alla Cina. Il blocco creato da Cina, Russia, Iran e Corea del Nord va affrontato, ma vanno affrontati anche i nostri problemi. Obama, Trump e Biden hanno fatto un errore a trattare la Cina come un nemico: le sue stesse dimensioni ne fanno una superpotenza che va riconosciuta».

Ma noi per quarant’anni non abbiamo pagato la nostra difesa…
«È così e persino Trump ha ragione a pretendere maggiori risorse dai paesi europei. Anche qui chi si oppone rimpiange un privilegio. E tocca spiegare che ci eravamo abituati troppo bene, cosa non facile, ma possibile: se vuoi mantenere l’autonomia non puoi avere solo il welfare, devi avere anche una difesa. Il riformista oggi cerca di migliorare la realtà, vendendo cose impopolari: deve far capire perché conviene spendere per la difesa».

Di fronte alla demagogia populista quale spazio resta per i riformisti?
«La demagogia è la risposta più facile: è dire ciò che la gente ama sentire. Ma si può contrastare. I populisti di destra e di sinistra hanno posto malissimo dei problemi in parte reali, come nel caso delle rivendicazioni identitarie nel Regno Unito contro l’immigrazione. Lo spazio dei riformisti è grande ma serve un discorso più comprensivo di quello di Renzi e Calenda».

Dice che non c’è più spazio per loro?
«In Italia bisogna fare i conti con il modello politico che è maggioritario e bipolare. Lo spazio per i riformisti c’è ed è ampio, ma all’interno del polo di centrosinistra. Tajani farà lo stesso a destra e ci si parlerà. Ma c’è bisogno di un’identità riformista e se persino Bonelli e Fratoianni sono riusciti a trovare un loro spazio… Bisogna però smetterla coi personalismi. Non credo tuttavia nell’ “entrismo” nel Pd: è difficile che il Pd sia a breve di nuovo retto da un riformista».

In Italia è diventato difficile far passare un messaggio di apertura e di progresso…
«Il nostro paese è invecchiato, dobbiamo fare i conti con la realtà. Chi ha settant’anni che progresso può vedere? Per molta gente, il passato conta più del futuro. La vita è “dietro” e molti sono “arrabbiati” anche per questo: come parli a costoro? Con la tessera dedicata a Berlinguer, Schlein ha venduto il passato, anche questa è demagogia».

E la globalizzazione ha perso la sua spinta propulsiva…
«La globalizzazione per i paesi giovani è ancora un miracolo, e ha difeso i redditi dei paesi sviluppati, grazie a un ribasso dei prezzi di cui non si parla. Si guarda, perché è più visibile ed è vera sofferenza, alla fabbrica che chiude, a chi perde il lavoro e la globalizzazione è disprezzata. Penso ai bianchi poco istruiti che votano per Trump. Chi lavorava nell’industria automobilistica statunitense guadagnava come il ceto medio in Italia. Non è semplice spiegargli che la globalizzazione se regolata continua a convenire, e certo non puoi dire che tutto va bene. Allo stesso modo, sappiamo che non possiamo andare avanti senza immigrazione ma come lo spieghi a chi è povero o dequalificato e ne teme la concorrenza?».

Poi c’è la sfida demografica, tema centrale dei suoi ultimi libri…
«Appena si sta meglio si fanno meno figli. Hanno cominciato Europa, la parte bianca degli Usa e Giappone, ma ormai anche la Cina è in crisi. È un problema mondiale che si diffonderà. Chi sta bene si concentra su se stesso, ma senza figli non c’è futuro e la società diventa passatista. Quelle fatte da vecchi sono società complicate e per niente allegre».

Come siamo arrivati a questo?
«Il guardare a noi stessi permesso dal benessere è prezioso e va difeso ma ne vanno visti i limiti. E c’è anche un problema culturale. Per anni si è affermato nella cultura progressista l’approccio malthusiano: più gente c’è, peggio si sta. Poi alla paura per la population bomb si è aggiunto il catastrofismo verde. Così, per parte della cultura progressista fare figli è diventata cosa negativa».

Invece?
«Invece dovremmo ricordare che avere figli è molto bello. Serve una rivoluzione della mentalità che richiede tempo, le politiche di sostegno economico non bastano. Per l’economia ufficiale – anche quella marxista – le donne con figli rientravano nel lavoro improduttivo: una assurdità. Le nostre politiche per la famiglia non possono certo essere quelle di Benito Mussolini, di Vladimir Putin o di J.D. Vance, ma servono una mentalità nuova e politiche consistenti con essa».

Crescita, lavoro, impresa, progresso: queste parole sono assenti dal discorso pubblico del centrosinistra. Il populismo pentastellato ha fallito la prova del governo. L’attuale segreteria del Pd insiste solo sui diritti civili, si limita a chiedere più spesa per scuola e sanità, lancia fronti popolari contro il ritorno del fascismo.
«È così, ma ciò conferma che c’è spazio per una formazione riformista. È vero che serve più sanità perché aumentano gli anziani, e quindi servono più soldi: come si fanno e dove si prendono? Il populismo non può rispondere».

Di fronte alle riforme (spesso pasticciate) della destra, la sinistra oppone il tabù del fascismo eterno e rifiuta il confronto: guai a toccare la Costituzione e allarmi contro derive autoritarie che non esistono.
«Il frontismo “anti” è una politica sbagliata e che si paga sul lungo periodo. Rende però nel breve, anche perché è come il ‘techetè’ della televisione, vende un passato che a molti piace. Penso però sia più grave un altro suo limite: così ti fai definire dal nemico. Diventi l’“anti” e lasci l’iniziativa all’avversario. Essere “anti” è però il riflesso della difficoltà oggettiva di affrontare la realtà e quindi non va disprezzato, perché funziona da collante. Ma non basta. Purtroppo il Pd non è in grado in questo momento di fare proposte operative di impronta riformista».

Il conservatorismo di sinistra che rifiuta il cambiamento è anche alla base di certe scelte di retroguardia come i referendum contro il jobs Act…
«Nel mondo occidentale il passato è spesso di sinistra: pensi allo statuto dei lavoratori, una nobile illusione come la pensione a 60 anni. Quindi nelle nostre società invecchiate, a sinistra il conservatorismo è “popolare”. La Schlein usa male quest’arma, ma nemmeno conviene lasciarla alla destra. Il conservatorismo non si può disprezzare, va aiutato a capire i suoi limiti».

Quale dovrebbe essere dunque l’agenda dei riformisti oggi?
«Per riavere crescita e progresso servono una svolta demografica e istruzione e ricerca di qualità. Quindi puntare sulla scuola, la formazione professionale e l’università. Chi studia le materie STEM il lavoro lo trova. L’altra leva è l’immigrazione: più giovani vogliono dire più sviluppo. Ma l’immigrazione crea grandi contraddizioni, quindi va spiegata e gestita bene».

Tutto questo potrebbe farlo un ‘Terzo Polo’?
«Più di un terzo polo, purtroppo in crisi, serve oggi una formazione riformista capace di imporre questi temi nel suo schieramento. Il “purismo” politico è autolesionista, occorre saper mettere insieme cose diverse. La catastrofe lasciata da Renzi e Calenda lo dimostra: serve pluralismo anche tra i riformisti. Nel Pci e nella Dc c’era di tutto e di più. Anche chi non ha vocazione maggioritaria deve riuscire ad avere molto dentro».

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