«Occidente è una parola che crea confusione». Andrea Graziosi (storico contemporaneista, tra i massimi esperti del mondo sovietico e post-sovietico) inforca gli occhiali e prova a spiegare. Gli chiederò, nel corso del nostro colloquio, di fare il punto sui conflitti in corso, in Ucraina e a Gaza, di riflettere sul futuro dell’Europa e sulla variabile Trump, di ragionare su riformismo e riforme in Italia, su una nuova casa dei riformisti, e non gli ci vorrà molto per mostrare tutta la sapienza dello studioso che, a ciglio asciutto, descrive lo stato delle cose e gli scenari realisticamente possibili, ma non riuscirò in nessun modo ad aggirare quella che mi appare la difficoltà principale posta sul tavolo: l’impasse in cui si trova quel pezzo di mondo che si riconosce in una stessa tradizione liberale e democratica, impastata di progressismo, di diritti, di economia sociale di mercato, di regimi aperti e inclusivi, di major discografiche e teatri off, di software libero e colossi tecnologici all’avanguardia.

Pie illusioni.
«Guarda che l’officina del mondo non è più l’Occidente, ma la Cina. Sul piano militare, la sola Corea del Nord produce più proiettili di tutta l’Unione europea. Sul piano demografico, dobbiamo prendere atto che l’Occidente è fatto da popolazioni invecchiate. Ma, soprattutto, non puoi non vedere il distacco prospettico fra Stati Uniti ed Europa, i diversi interessi in gioco nei diversi teatri di crisi. Per questo dico che la parola Occidente oggi ingenera confusione: perché maschera questa realtà. L’Occidente si riconosce in, e io stesso naturalmente mi riconosco in – e difendo – una serie di princìpi e di valori di libertà: piacciono anche a me. Ma, sul piano politico e strategico, dell’Occidente del 1945 non vi sono che resti, per fortuna ancora imponenti. Andrebbero usati per costruire qualcos’altro. Guerra o non guerra, indietro non si torna, al vecchio ordine novecentesco non si torna».

Guerra o non guerra. Cosa sta succedendo, però? E, soprattutto, cosa succederà nelle prossime settimane, a cominciare dalla guerra in Ucraina?
«Per la Russia le cose oggi vanno decisamente meglio rispetto ai mesi scorsi. Putin ha saputo trovare nuove forniture militari – i droni dall’Iran, le munizioni dalla Corea del Nord – e conta, dopo un breve intervallo di crisi, sullo stabile sostegno della Cina, mentre c’è una grande difficoltà per l’Ucraina a sostenere lo sforzo bellico, non potendo contare immediatamente come in passato sugli aiuti americani. Pesa l’ombra di Trump, che ha più volte dichiarato, in privato e in pubblico, le sue preferenze… Sul terreno, dunque, la situazione è difficile, ed è per giunta complicata dall’errore (benché, in quel frangente, comprensibile) di puntare, lo scorso anno, su una controffensiva che si è rivelata irrealistica. L’esercito russo era stato respinto e sconfitto ben due volte – sia l’esercito regolare che la compagnia Wagner – ma a quel punto sarebbe stato più prudente fare altre scelte. Ciò non vuol dire che oggi i russi siano sul punto di sfondare. Le capacità operative russe rimangono limitate. La Russia ha sicuramente una maggiore potenza di fuoco: può sparare fino a tre o quattro volte di più dell’Ucraina, ma non è in corso un’operazione di sfondamento, non ci sono colonne di carri armati sul campo. Le sorprese, ovviamente, sono sempre possibili, ma quella che si combatte oggi è una guerra di attrito, che può finire in modi diversi a seconda del valore che assumono alcune variabili».

La prima delle quali ha un nome e un cognome: Donald Trump.
«Già. Putin comprende benissimo che la vittoria di Trump alle primarie apre per lui un periodo estremamente favorevole. Nessuno sa come andranno le elezioni a novembre, ma fino ad allora Trump controllerà il partito repubblicano nel modo più totale e questo rischia di mettere in forse per mesi il sostegno americano, il che apre a Putin una finestra di grande opportunità, che cercherà di sfruttare in ogni modo. Sul piano militare come su quello politico e ideologico, della propaganda».

In effetti, le incertezze e le esitazioni delle opinioni pubbliche sono oggi ben più evidenti che l’anno passato. Penso al clamore suscitato dalle parole del Papa, all’idea che Kiev non possa fare meglio che alzare bandiera bianca: sono davvero messe così, le cose?
«Lasciami dire anzitutto che non è stata la prima uscita improvvida di papa Francesco, cui è seguita poi la rettifica del cardinale di turno. Ma aggiungo che è ragionevole pensare, per i tempi e i modi, a un’operazione innescata ad arte da Mosca. Si conosce l’atteggiamento sospettoso di Bergoglio nei confronti dell’Occidente, l’ammirazione per la cultura russa, un certo profilo intellettuale e ideologico. Si può fare leva su questi aspetti, e provare a dividere la Chiesa uniate ucraina dal Vaticano. Per Putin sarebbe un grande successo. Sul campo, però, lo dicevo prima, le cose stanno così: combatti contro un Paese tre volte più grande di te, che ha per giunta un arsenale nucleare (il che spiega la riluttanza europea ad aiutare Kiev), non puoi realisticamente pensare di sconfiggerlo definitivamente. O meglio: torno all’errore di prima. Dopo aver respinto l’avanzata russa, dopo i successi militari sulla Wagner, invece di usare la retorica del “ci riprendiamo tutto” si poteva e doveva dire che politicamente l’Ucraina aveva vinto la sua guerra d’indipendenza, che era vero. Dopo tutto, cosa si era preso Putin, per cosa aveva scatenato il conflitto? Oggi è diverso, perché profittando della finestra aperta da qui a novembre, Putin potrebbe provare ad arrivare fino a Odessa e alla Transnistria, e forse persino provare a prendere Kharkiv».

La pace si farebbe insomma alle condizioni di Putin.
«No, non si tratta di fare la pace, ma di firmare un armistizio. Realisticamente, una pace non è possibile, se significa riconoscere a Mosca territori strappati con la forza. Persino il segretario generale delle Nazioni Unite, Gutierrez, che non può essere descritto come filo-occidentale, sa che non si può accantonare il primo dei princìpi su cui si fonda la legalità internazionale. All’Occidente – a quel che ne resta – non rimane che dare il massimo sostegno a Kiev finché l’armistizio non sarà possibile».

Perché parli di resti dell’Occidente? Per via dell’isolazionismo di Trump? Perché la Nato è stata dichiarata morta da Macron?
«Perché per gli Usa l’avversario oggi è la Cina. Era così già per Obama ed è così anche per Biden. Il quale è sicuramente legato – culturalmente e sentimentalmente – al vecchio Occidente, ma non ha un’idea diversa dai suoi predecessori di quale sia oggi la principale linea di confronto politico e militare. Né l’avrebbe Kamala Harris, se dovesse subentrargli. E la vera tragedia è che le due superpotenze, gli Usa e la Cina, non si parlano, non si riconoscono (in realtà si profila l’emersione di un’altra grande potenza, l’India, già almeno pari alla Cina, demograficamente e tecnologicamente. Ha un problema di unità nazionale, che la Cina non ha, ma la cosa interessante è che si tratta di una potenza anti-islamica, il che cambia molti giochi). Il reciproco riconoscimento fra superpotenze non ferma i conflitti, ovviamente, però rende relativamente più facile gestirli e soprattutto chiuderli. Oggi invece tutti quelli che vogliono aprire le ostilità, per un motivo o per l’altro, hanno una sponda su cui contare. Pensa ad Hamas, che non si sarebbe mossa se non entro questo quadro di instabilità globale, se non avendo dietro l’Iran, che a sua volta si è riavvicinato alla Russia. Chi vuole scatenare un conflitto ha oggi grandi facilità».

Se questo è il quadro, qual è il compito strategico che si disegna per noi europei? L ‘Europa rischia davvero l’irrilevanza?
«Cominciamo col dire che l’Unione europea (termine che preferisco a Europa) non è una superpotenza. Non lo è sul piano militare, perché non è una potenza nucleare, lo è la Francia. E nel mondo di oggi non c’è altro modo di garantirsi la propria indipendenza se non dotandosi di capacità nucleare. Le guerre in corso lo dimostrano: se l’Ucraina, spinta dagli Stati Uniti, non avesse ceduto il proprio arsenale nucleare a Mosca dopo il disfacimento dell’URSS, non credo proprio che sarebbe stata attaccata da Putin. Nel Medio Oriente, è alla deterrenza nucleare che Israele affida la sua difesa di fondo. Al contrario di India e Cina la nostra Unione non ha questa capacità e dovrebbe forse cominciare a pensarci, se vuole esistere politicamente. Ha inoltre un problema di strutture decisionali, di costruzione statale. Che non può essere di tipo federalista – un sogno difficilmente realizzabile: le tradizioni nazionali sono forti – ma può essere immaginata come una sorta di confederazione “etnica” imperfetta, dotata di più poteri di quanti ne abbia adesso Bruxelles. Il che implica anzitutto il superamento del diritto di veto, che oggi paralizza l’Unione».

Non è però paradossale che il tema di un rafforzamento dell’Unione si ponga dopo la Brexit, dopo l’invasione dell’Ucraina: non sono i segnali più evidenti del suo declino, di un inevitabile ridimensionamento delle sue ambizioni di essere un attore globale?
«L’ambizione dipende dalla stazza, e nessuno Stato europeo, da solo, ce l’ha. Ma nemmeno il Regno Unito o la Russia ce l’hanno. La follia di Putin è stata anche questa: la Russia in Europa avrebbe un ruolo di primo piano; a rimorchio di Cina o India – paesi da un miliardo e mezzo di persone con grandi capacità tecnologiche e industriali, mentre la Russia ne conta circa 140 milioni – può essere solo un pupazzo. Ma il problema è proprio l’ideologia che avvicina Putin (o lo stesso Boris Johnson) a Trump, l’ideologia del “Make Yourself Great Again”. Questa ideologia non porta da nessuna parte. Di sicuro non può funzionare in Europa. Per questo l’Unione europea – deve provare a costruire, nel medio-lungo periodo, un sistema a cerchi concentrici. Fare un accordo di un certo tipo con il Regno Unito, di un altro tipo con la Russia del dopo Putin (parlo dunque in prospettiva). Non è facile, ma non ci sono altre strade».

A proposito di cose difficili, e di strade senza alternative: Gaza.
«Lì quello che sta succedendo, e forse non lo si dice abbastanza, è che sono anche i paesi arabi a lasciare che Israele prosegua nell’opera di sradicamento di Hamas. L’unico che tenta di dissuadere Netanyahu, Biden, è paradossalmente l’unico che realmente ci prova. Ma che pensare di al Sisi, che pochi giorni fa ha fatto condannare a morte otto esponenti di primo piano dei Fratelli Musulmani, parenti di una Hamas che ne è una filiazione diretta? Nel mezzo della guerra nella Striscia di Gaza, il Cairo manda un segnale direi inequivocabile. Il fatto è che, dopo il 7 ottobre, si pensava che Israele avrebbe avuto a disposizione non più di un mese, un mese e mezzo per le sue operazioni militari nella Striscia, ed è per questo che sembrava, ed è stata, una follia entrare in un territorio di due milioni di abitanti. Invece sono già trascorsi quattro mesi circa, e non mi pare che i paesi arabi stiano facendo pressioni vere per dissuadere Israele. Ora, si possono condannare quanto si vuole operazioni come quella che Netanyahu sta conducendo, e io sono il primo a condannarla, ma non è detto che non riesca, visti i margini di manovra che sta avendo. Troppi esempi ci sono nella storia di operazioni repressive su così larga scala (pensa a Putin con la Cecenia, o a Stalin con gli stessi ucraini, o alla lotta all’ISIS) che hanno però avuto successo, per non vederne la efficacia, per quanto drammatica, tragica, su un orizzonte temporale significativo».

Può darsi che funzioni con Hamas, a costi umani insopportabili, ma rappresenta anche una soluzione, una via di pacificazione possibile?
«Io non vedo altra soluzione all’infuori della coesistenza di due Stati: non dico due popoli, perché provare a fare due entità etniche pure sarebbe una follia. Con Hamas la destra israeliana ha fatto un tragico errore, dandogli Gaza allo scopo di indebolire l’Autorità nazionale palestinese. Ora il gioco le si è ritorto contro. Ma in prospettiva il vero punto è la mediorientalizzazione di Israele, sempre meno Stato europeo, di origini europee, sempre più Stato medio-orientale. L’unica prospettiva realistica è l’integrazione stabile di Israele nel mondo medio-orientale. Che è precisamente quello che Hamas voleva e vuole impedire».

Abbiamo parlato finora di questioni internazionali, ma è il caso di dedicare qualche attenzione anche alle faccende di casa nostra, a un quadro politico segnato prevalentemente da forze o leader di segno populista, in cui i riformisti sono in evidente difficoltà. Non è una novità di quest’ultima stagione, ma anzi una costante che accompagna ormai da decenni la politica italiana, complice la debolezza delle culture politiche tradizionali e una forte volatilità del voto.
«Parlare di riformismo al singolare è sbagliato. Le difficoltà di cui parli hanno radici lontane e impongono un confronto tra questa attuale stagione e quelle precedenti in cui il discorso riformatore cadeva in un quadro di crescita e di sviluppo. Fare riforme, negli anni Settanta, voleva dire dare, non togliere. Fare la riforma delle pensioni voleva dire dare la pensione a sessant’anni, o anche prima, non allontanare nel tempo l’età pensionabile. Fare la riforma sanitaria voleva dire dare a tutti l’assistenza medica, non introdurre il ticket sulle prestazioni di base. Tutti i tentativi riformisti vanno incontro a difficoltà inevitabili in un contesto di aspettative decrescenti, in cui riformare significa razionalizzare, ristrutturare, non allargare o estendere. Così i diversi tentativi che si sono succeduti – da Amato a Prodi, da Ciampi a Renzi a Draghi, passando per il Berlusconi riformista dei primi suoi anni – sono stati sconfitti. Certo è un problema gigantesco: come fare una politica razionale, necessaria ma quasi inevitabilmente impopolare, in una fase storica che non è più quella del miracolo economico e di un Occidente in salute».

Questo significa che dobbiamo rassegnarci: non c’è alternativa a politiche populiste, che in un paese dall’elevatissimo debito pubblico presentano forse anche rischi maggiori, e che non a caso richiedono spesso e volentieri robuste correzioni tecnocratiche? Questo è il pendolo, tra tecnocrazia e populismo?
«Significa forse che puoi sperare di orientare – di orientare ragionevolmente – una delle due forze populiste. La storia italiana degli ultimi anni è caratterizzata da un andamento maniaco-depressivo, con spostamenti elettorali incredibili nel giro di pochissimi anni. È andata così con Renzi, con Grillo, con Salvini, ora con Meloni. Prima grandi fiammate, poi grandi delusioni: gli elettori insoddisfatti si spostano dall’altra parte, o si rifugiano nell’astensione. Se ci inserisci i governi tecnici – una lunga fila, che comprende Ciampi, Dini, Monti, Draghi – hai il quadro di una società sempre più fragile dal punto di vista democratico. Che cosa prefigurano, queste soluzioni: una società del notabilato, fondata sul principio della supplenza? Ogni tanto devi andare fuori dalla politica per stabilizzare?».

Questo spiega anche i ripetuti tentativi di riforma delle istituzioni, una passione non so quanto condivisa dagli italiani, che però si fa sentire ad ogni legislatura, con esiti che non saprei giudicare apprezzabili, almeno finora. A quell’andamento maniaco-depressivo non si sottrae nemmeno questo tema: non c’è leader politico che non ci si provi, salvo rimediare solo sconfitte.
«Il fatto è che si è voluto adottare un sistema maggioritario in un paese che non lo è. Con un’evidente cecità anche rispetto ai cambiamenti futuri. Perché il maggioritario richiede una popolazione omogenea, ma se tu cominci ad avere due o tre milioni di italiani non nativi, questa condizione inizia a venir meno e ti si pone un problema di rappresentanza di queste fasce di popolazione, che è più facile assicurare in un sistema multipartitico. Per fortuna il sistema elettorale mantiene qualche elemento proporzionalistico».

Che è quello che lascia ancora qualche spazio all’idea di una casa comune dei riformisti. Ma per le ragioni che dici tu, non dovremmo pensare, invece di costruire un terzo polo, al modo in cui le forze riformiste possono condizionare dall’interno uno dei due poli?
«Anche, e direi soprattutto se emergesse una nuova leadership riformista. Il fattore personale in politica conta, infatti, ha sempre contato, ma non farei certo affidamento su Conte, che Zingaretti omaggiò del titolo di punto di riferimento fortissimo dei progressisti, o su Schlein. Lì tu hai per ora un polo tendenzialmente populista, a sinistra, come ce l’hai a destra. Ci sono differenze, all’interno – si vede bene che Meloni non è Salvini, e lo stesso si può dire tra democratici e Cinque Stelle, che non sono la stessa cosa – ma se vuoi intercettare la domanda di moderazione che c’è nel Paese (vedi anche il risultato di Forza Italia, in Abruzzo) allora hai il problema di trovare una casa dei riformisti, di cominciare a metterne insieme i pezzi, perché il riformismo italiano è esploso».
È esploso, certo. E nessuno sa cosa c’è, dopo l’esplosione.