Angelo Panebianco: “Autonomia una contraddizione, Premierato così è impraticabile. In Italia mancano le lenti per analizzare la realtà”

In Italia un difetto di cultura liberale e troppi poteri di veto impediscono le riforme, ma il cambio degli assetti internazionali ci impone oggi di modificare il nostro sistema politico istituzionale. Questo, in estrema sintesi, il pensiero di Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera e professore emerito dell’Università di Bologna dove negli ultimi anni ha insegnato Sistemi internazionali comparati presso la Facoltà di Scienze politiche.

Che cos’è il riformismo?
«La parola nasce in un particolare contesto storico in cui era utilizzata in senso alternativo al concetto di rivoluzione. Poi diventa una forma di adattamento alla realtà attraverso piccoli interventi per migliorare le condizioni di vita dei cittadini».

Perché il pensiero riformista fatica ad affermarsi in Italia?
«La prima difficoltà è che in Italia c’è una debolezza della cultura liberale che impedisce di leggere i problemi. In pratica, mancano le lenti per analizzare la realtà. Poi c’è un motivo strutturale: il nostro assetto politico-istituzionale premia i poteri di veto, è più facile bloccare che cambiare. Il cambiamento, dunque, è costoso. Questo spiega l’impossibilità di cambiare la Costituzione e di rafforzare i governi».

In altre democrazie europee non è così…
«In Gran Bretagna e Francia è diverso: i governi sono forti e i poteri di veto sono deboli. Questo gap con altri paesi europei è la ragione per cui non è possibile fare serie riforme istituzionali: indebolirebbero i poteri di veto».

L’ultima e bruciante prova di questa impotenza è la sconfitta del referendum del 2016…
«Il 2016 chiude definitivamente la fase avviata dai referendum elettorali dei primi anni ’90 che aprirono la strada al cambiamento istituzionale. Grazie a quella iniziativa abbiamo conquistato la riforma della legge elettorale dei sindaci e quella delle regioni. Ovvio che la riforma elettorale non è il punto finale bensì il punto di partenza che avrebbe dovuto riequilibrare i rapporti tra governo e parlamento».

Invece?
«Invece le culture politiche italiane non sono state in grado di gestire la competizione bipolare. Si sperava nella loro capacità di esprimere una forza centripeta, come succede nei sistemi bipolari, ma questa si è realizzata soltanto sulla politica estera. Così quella strada riformista iniziata negli anni ’90 si interrompe definitivamente nel 2016».

Vuol dire che non c’è più spazio per una riforma delle istituzioni?
«Purtroppo la resistenza alla modifica della Costituzione è troppo forte, ma una ipotetica seconda repubblica potrebbe nascere solo sulle ceneri della prima. Tuttavia, non credo più alla possibilità di riforme dall’interno al momento: i poteri di veto sono troppo forti. Peggiora il quadro il fatto che la nostra società perde dinamismo anche per ragioni demografiche e pertanto è sempre meno disponibile ad affrontare salti nel buio».

Eppure sul tavolo oggi ci sono ben due riforme: il premierato e l’autonomia differenziata. Lei come le valuta?
«La legge sull’autonomia differenziata è targata Lega-Pd. Incredibile contraddizione: quelli che oggi si mobilitano contro il regionalismo sono gli stessi che hanno votato la riforma del Titolo V che in alcune sue norme sembra intendere che l’Italia sia uno stato federale. E la Lega ne approfitta. Ma l’autonomia differenziata non riduce i poteri di veto, anzi la creazione delle regioni li rafforza. Quindi l’autonomia potrebbe avere successo proprio perché aumenta i poteri di veto».

E sul premierato a che punto siamo?
«Non scommetto sull’esito positivo di questa riforma. Le divisioni nella coalizione di governo hanno impedito di raccogliere i suggerimenti venuti dall’esterno (in particolare dalle associazioni Libertà Eguale, IoCambio, Fondazione Magna Carta, Riformismo&Libertà) per rendere praticabile la riforma. Così com’è scritta, invece, la riforma non è praticabile. Inoltre, dovrebbero cambiare la legge elettorale: ma non lo faranno perché così com’è conviene a tutti».

Perché?
«Questa legge permette ai partiti di decidere chi entra in parlamento grazie alle candidature multiple. Viceversa, qualunque riforma elettorale che abbia l’obiettivo di rafforzare il governo dovrebbe basarsi sul collegio uninominale. Ma il collegio uninominale è molto rischioso sia perché rende la leadership contendibile, sia perché non ci sarebbe certezza di essere eletti. È un problema di calcolo politico. Ma così è difficile che la riforma del governo vada in porto».

La dicotomia tra populismo/sovranismo da una parte e liberalismo/progressismo dall’altra sta rimescolando le carte all’interno degli schieramenti?
«Di liberalismo in giro ne vedo poco. E poi: sovranismo che vuol dire? Macron è o no sovranista? Il vero punto è l’integrazione europea e il rapporto con gli Stati Uniti. Uno come Viktor Orbán, per esempio, non so se è sovranista, ma sicuramente gioca su più tavoli, sta con Putin e vuole indebolire il rapporto con gli Usa. Quelli come lui, non a caso, tifano per Trump. Ma la cosa è meno ideologica di come vorremmo dipingerla».

Ma una proposta riformista dove si potrebbe collocare oggi? In un partito terzo creato ad hoc? O in un partito a vocazione maggioritaria alla guida della coalizione?
«Mi pare un dibattito estivo. Il tentativo di creare una forza centrista che avrebbe potuto effettivamente calamitare parecchi voti è fallito. Ma proprio questo fallimento non sollecita il Pd e FdI ad accogliere questo tipo di domanda».

Ma così non c’è il rischio di polarizzazione estrema?
«Il dibattito è drogato. Le parti che si confrontano sembrano molto più distanti, ma nella realtà lo sono molto meno. Lo statalismo e il corporativismo sono più forti nel Pd o nei FdI? Tra destra e sinistra ci sono molte più somiglianze di quanto appaia».

Sembra uno “stallo messicano”…
«Sì, è così. Il tentativo del Terzo polo era buono, anche perché se sei una formazione di centro puoi attirare un elettorato molto ampio. Ma se non ha funzionato ci sono delle ragioni politiche: è irrilevante decidere chi aveva ragione e chi aveva torto».

C’è chi propone di tornare al sistema proporzionale…
«L’assetto politico-istituzionale della nostra repubblica ha funzionato finché siamo stati garantiti dall’assetto internazionale. Ci siamo potuti permettere debito pubblico, ritardi amministrativi e instabilità politica cronica. Ma appena cambia il contesto globale un sistema così va in crisi. I conservatori costituzionali hanno posizioni vecchie, superate dalla storia: non capiscono che il nostro assetto ha funzionato (male, pagando un prezzo all’immobilismo) nella stabilità delle relazioni internazionali».

Joe Biden ha formalizzato per primo il contrasto tra democrazie e autocrazie: in Italia abbiamo compreso il cambiamento degli assetti internazionali?
«Per Biden il vero problema è la Cina: è lì la competizione del futuro. Una situazione molto diversa dalla Guerra Fredda perché l’Unione sovietica con i suoi satelliti era un mondo chiuso, non era inserita nel sistema economico internazionale. Viceversa, oggi la Cina è inserita a pieno titolo: tutto il mondo ha rapporti con la Cina. Pertanto non si possono ricreare i blocchi. Paesi come il Sudafrica, il Brasile e l’Indonesia non sono inquadrabili. Anche per questo Biden ha cercato di sviluppare una maggiore coesione tra le democrazie».

Il pacifismo progressista non accetta l’idea che libertà e democrazia debbano essere difese, anche con le armi purtroppo. Anche qui i riformisti sono quelli che fanno i conti con la realtà?
«L’antiamericanismo è sempre stato molto diffuso nel nostro paese. E poi abbiamo creduto nella fine della storia. Quando la Russia ha invaso l’Ucraina si è aperto un dibattito molto ingenuo. Qualcuno ha detto: “Incredibile in quest’epoca!”. Forse credevano di vivere nel mondo kantiano della pace perpetua. Attenzione però: anche chi sostiene l’Ucraina non vuole essere coinvolto direttamente e tira fuori argomenti buffi sulle armi che dovrebbero essere solo difensive. Dimostrano solo che nessuno vuole assumersi rischi. Poi, certo, ci sono pure i filoputiniani espliciti, sia a destra che a sinistra, schierati sul fronte avverso».

Parliamo di economia. La riduzione del debito pubblico e la promozione della crescita sono le stelle polari del riformismo?
«Certamente sì. Ma la parola chiave è crescita. Keir Starmer – che ha vinto le elezioni nel Regno Unito e ora guida il governo – è un laburista e ha messo la crescita al centro della sua missione politica. Lì la crescita non è un tabù per la sinistra, in Italia invece lo è diventata. È molto preoccupante. Sembra che per la sinistra italiana la crescita non sia più possibile: resta solo da tagliare a fette la torta che già c’è e che però tende a diminuire. Mi aspetterei che la critica al governo fosse su questo punto: ma per l’opposizione la parola crescita è un tabù».

Siamo messi male insomma…
«Sì. Ma, se cambierà, il nostro modo di leggere la realtà conterà molto. E poi il futuro è imprevedibile: lasciamogli aperta la porta».