«Netanyahu sta ipotecando il futuro d’Israele. Senza alcun altro motivo se non quello di portare a compimento il disegno della Grande Israele. Non ho combattuto perché il mio Paese diventasse un nuovo Sudafrica: lo Stato dell’apartheid». A sostenerlo è Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare e vice sindaca di Tel Aviv, paladina dei diritti delle donne, figlia di uno dei miti d’Israele: l’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.

Il primo ministro Benjamin Netanyahu, dopo un incontro con l’inviato in Medio Oriente del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ha dichiarato che il suo governo “continuerà a lavorare” sulla questione dell’annessione della Cisgiordania “nei prossimi giorni”, lasciando intendere che mancherà la data del 1° luglio fissata dallo stesso Netanyahu. Come leggere questo annuncio?
Come un problema aperto con gli americani, sulle dimensioni dell’annessione. Per Netanyahu il fattore tempo è decisivo. E coincide con le elezioni presidenziali negli Stati Uniti. Se si è spinto fino a questo punto è perché sa di poter contare sul sostegno incondizionato del suo amico Trump. Ma se il nuovo presidente Usa dovesse essere, come spero, Joe Biden, allora molte cose cambierebbero e Netanyahu non avrebbe più carta bianca per portare a compimento il sogno che ha sempre coltivato la destra più radicale: quello della Grande Israele. Un sogno che si trasformerebbe in un incubo non solo per i palestinesi ma per quanti, nel mio Paese, si battono per il dialogo e per non fare dell’Israele di oggi il nuovo Sudafrica del Medio Oriente: lo Stato dell’apartheid.

Il ministro della Difesa, Benny Gantz, ha affermato che quella del 1° luglio «non è una data sacra». E le parole di Netanyahu gli danno ragione.
Gantz prova a risalire la china dopo la scelta, politicamente suicida, di stare al governo con Netanyahu, tradendo il suo elettorato. A confermarlo sono i sondaggi che lo danno in caduta libera (se si votasse oggi, Blu e Bianco, il partito di Gantz otterrebbe 9 seggi rispetto agli attuali 33, ndr). D’altro canto, Trump non può tornare indietro sul via libera concesso al suo amico Netanyahu. Non può soprattutto perché se lo facesse perderebbe il sostegno degli evangelici americani, tra i più decisi fautori dell’annessione. In discussione sono la portata e la tempistica dell’annessione. Una modifica dei confini può avvenire senza scatenare una nuova escalation di violenza, che finirebbe per propagarsi anche ai Paesi arabi vicini, come la Giordania, solo se viene discussa e condivisa a un tavolo negoziale con i Palestinesi. Altrimenti, anche se dovesse passare l’idea di Gantz di limitarne le dimensioni, l’annessione sancirebbe la morte del dialogo e della soluzione a due Stati. Che è poi quello che ha sempre voluto Netanyahu.

Del governo Netanyahu-Gantz fa parte anche il leader laburista, Amir Peretz…
Qui non siamo neanche al tradimento. Siamo all’assassinio politico del partito che ha fondato lo Stato d’Israele, il partito che fu di Ben Gurion, Herzog, Golda Meir, Rabin, Peres… Il partito di mio padre. E tutto questo per uno strapuntino in un governo che di laburista non ha niente. Non è solo mancanza di leadership credibili, autorevoli. È che la sinistra ha smesso da tempo di essere empatica, è incapace di entrare in sintonia con quella parte d’Israele più povera e, insieme più dinamica. Le politiche della destra hanno provocato gravissime faglie sociali, impoverendo una parte significativa del paese e, al tempo stesso, non investendo sull’Israele delle start up, sulla ricerca, l’innovazione. È un problema di radicamento ma credo soprattutto di visione, di capacità di immaginare un Israele altro da quello plasmato dalle destre. Una visione che avevano i padri fondatori d’Israele, che ha innervato il pionierismo sionista. Non è nostalgia del passato, anche se per età potrei indulgere a questo sentimento. Per fortuna anche alla veneranda età di 80 anni continuo ad avere rapporti con tante ragazze e ragazzi splendidi, impegnati nel sociale, che non hanno rappresentanza politica. Non sono pochi, sa. Ma per portarli dalla propria parte, la sinistra dovrà lavorare sodo e con tempi non brevi.

In questo scenario non certo rassicurante, c’è ancora uno spazio per rilanciare il dialogo israelo-palestinese?
Se questo spazio deve essere trovato da coloro che governano oggi Israele, allora dico no, questo spazio non esiste più. Non esiste perché si è scelto di indebolire e delegittimare un leader moderato, disposto al compromesso, qual è Abu Mazen, anche se questo ha finito per rafforzare gli estremisti di Hamas. Non esiste, perché nella visione di cui questa destra è portatrice, la sicurezza è sempre congiunta con disegni di grandezza che non contemplano il riconoscimento di uno Stato palestinese. Non esiste, non può esistere una pace vera, durevole, che possa conciliarsi con la massiccia colonizzazione dei Territori palestinesi occupati spinta fino all’annessione. Non è conciliabile per il semplice, inconfutabile, dato di realtà che la politica di annessione di terre palestinesi, la trasformazione, anche sul piano dello status, di colonie in città israeliane, minano dalle fondamenta un accordo fondato sul principio di “due popoli, due Stati”.

Ma gli insediamenti sono cresciuti, e tanto, anche quando a guidare Israele erano primi ministri laburisti.
Su questo la sinistra dovrebbe riflettere e fare una salutare autocritica. Ma c’è una differenza sostanziale: nell’orizzonte della destra nazionalista, gli insediamenti hanno una legittimazione ideologica e non rispondono a ragioni di sicurezza. Per la destra più estrema, che oggi ha un ruolo decisivo all’interno del governo, i coloni, anche nelle componenti più radicali, sono degli eroi, i pionieri di Eretz Israel. In questa ottica, gli insediamenti in Giudea e Samaria (i nomi biblici della Cisgiordania, ndr) sono la concretizzazione del disegno della Grande Israele che è stato a fondamento del revisionismo sionista di Zeev Jabotinsky, da sempre il pensatore di riferimento della destra israeliana.
Dove dovrebbe nascere lo Stato dei palestinesi? Su quali territori, entro quali confini? E ancora: certo, può esistere uno stato smilitarizzato ma non uno stato che non eserciti la propria sovranità sul territorio nazionale. Uno Stato del genere sarebbe una finzione. Netanyahu, e con lui i capi della destra radicale, considerano la nascita di uno Stato di Palestina non come una minaccia alla sicurezza d’Israele ma come un colpo mortale alla Grande Israele. Non è con la forza che Israele diventerà un paese normale. Vede, Yitzhak Rabin capì che la pace, che è altra cosa dalla resa dell’altro contraente, non può essere a costo zero. La pace dei coraggiosi è un incontro a metà strada. È la ricerca di un compromesso sostenibile. Ma coraggio, compromesso, dialogo, sono parole che non esistono nel vocabolario politico di chi governerà Israele.

Il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, ha annunciato la fine di tutti gli accordi con Israele e gli Stati Uniti e affermato che il primo, come potenza occupante, è responsabile dei territori che occupa.
È la conferma della gravità del momento. Pace e annessione sono tra loro inconciliabili. Ma questo Netanyahu lo sa bene. Lui ha scelto da tempo. Ha scelto l’annessione.

Cosa significa per lei essere “amici d’Israele”?
Un vero amico è quello che sa dirti quando sbagli e ti aiuta a non ricommettere gli stessi errori o farne di nuovi, ed esiziali, come è l’annessione. Israele ha bisogno di questi amici. E Donald Trump non è tra questi.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.