Gli anni Settanta, la scuola, l'antiautoritarismo
Anni Settanta, quella stagione libertaria in cui parlare di pace non era solo utopia
La violenza contro il diverso, il più debole, lo “straniero” è il riflesso più arcaico della specie umana, il bisogno di differenziarsi e proteggersi innanzi tutto da quel corpo femminile con cui il maschio è stato tutt’uno, in una sorta di “co-identità”, come la definiva Elvio Fachinelli, all’origine.
Da quella guerra mai dichiarata, che ha visto un sesso sottomettere l’altro, confinarlo nella “naturalità” di una “vita inferiore” – “sfogare su di lui la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso (…) umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo, ucciderlo” (Freud) -, altre guerre e ingiustizie si sono succedute tanto da sembrare la “normalità” delle relazioni umane. Ancora oggi, dire “No alla guerra” o “Fuori la guerra dalla storia” viene presa come un’utopia o una ingenua bontà d’animo. Eppure c’è stata una stagione “libertaria” che tra le esigenze radicali emerse alla coscienza aveva posto anche la possibilità di educare a relazioni non necessariamente segnate dal potere, dall’obbedienza, dalla passività e dalla delega.
Alla divisione tra corpo individuo e società, trasmessa dai saperi settoriali, opponeva l’idea di una interezza dell’individuo e la possibilità che fosse la scuola a spingersi, nei suoi processi formativi, fino alle radici dell’umano. L’espressione “il corpo a scuola” risale alla mia esperienza degli anni ‘70, prima nel movimento non autoritario nella scuola e poi nei gruppi femministi. L’ho ritrovata recentemente con piacere nei libri di bell hooks tradotti in Italia : “Insegnare a trasgredire” (Meltemi 2020), “Insegnare comunità” (Meltemi 2022): “La pedagogia libertaria richiede davvero che si lavori in classe, sia con i limiti del corpo, che insieme, attraverso corpo e limiti (…) Siamo invitati a insegnare come se le nozioni non emergessero dai nostri corpi (…) Siamo tutti soggetti della storia. Dobbiamo tornare allo stato di essere incarnati per decostuire il modo in cui il potere viene tradizionalmente utilizzato in classe, negando la soggettività ad alcuni gruppi e accordandola ad altri (…) Stiamo dicendo, per l’ennesima volta, che argomenti diversi e più radicali non danno vita a una pedagogia libertaria, che una pratica semplice come l’inclusione dell’esperienza personale può essere più costruttiva della semplice modifica del programma.”
La presa di distanza dal dominio in tutte le sue forme ha bisogno perciò di partire dal quel radicamento di pregiudizi, formazioni arcaiche, in gran parte inconsce, per ripensare i linguaggi e i saperi istituzionali, la cultura “alta” quanto il senso comune, per uscire da dualismo che li ha consegnati alla storia scorporati. La disciplina dominante nella scuola – scriveva Antonio Prete allora insegnante in un liceo milanese – è “la disciplina dei corpi”, “La parola dell’insegnante non nega solo il suo rapporto col testo e con la scrittura, ma nega il suo proprio corpo, la sua storia biologica, i suoi rapporti sociali lasciati sulla soglia della classe, la sua quotidianità, drammatica e informe, irrequieta o torbida (…) Per questo gli studenti gli contrappongono la vitalità dei loro corpi, la spontaneità del loro linguaggio, o la resistenza di un’altra parola, quella che i mass media o la famiglia o le altre forme di socializzazione hanno loro trasferito (…) Per questo la disciplina è la disciplina dei corpi”.
Paradossalmente, i corpi in classe sono vistosamente presenti e quasi sempre molto rumorosi, ma c’è qualcosa che li copre: la cattedra per l’insegnante, il “sottobanco” per allievi e allieve. Avviare una “educazione come pratica di libertà” significò per bell hooks, come per la mia generazione di insegnanti non autoritari, mettere al centro il “vissuto personale”, interrogare le esperienze legate alle famiglia che cercano nella scuola o la loro cieca ripetizione o una ripresa aperta a nuove soluzioni. “Insegnare a trasgredire”, “insegnare comunità”, per usare le sue parole, significava per noi allenare al pensiero critico, sottrarsi alla passività e alla delega, creare nuove forme di socializzazione attraverso la presa di parola, individuale e collettiva, l’esercizio del potere tra uguali, la partecipazione alla scelta dei contenuti e dei fini della attività scolastica. In un editoriale della rivista “L’erba voglio” si legge: “Per poter lavorare con la gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare e non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni”.
Oggi si parla molto di educazione di genere, ma non si dice quasi mai che a essere considerate un “genere” e non individui, persone, sono state per secoli solo le donne, e che come tali – madri e maestre – sono presenti in larga misura ancora oggi nella scuola fino ai livelli superiori di istruzione. A ciò si aggiunge il paradosso di un soggetto tenuto a lungo fuori dalla storia e messo a trasmettere un sapere che è stato creato da altri. Se una pratica educativa, volta ad affrontare gli stereotipi di genere nelle forme in cui le abbiamo ereditati – complementarietà, binarismo, gerarchia ecc. – , incontra tante difficoltà, forse è perché risveglia negli insegnanti stessi ricordi, vissuti della loro infanzia e adolescenza non indagati fino a quel momento, o rimossi. Ma può capitare, come è stato per me, che proprio il ricordo di un’esperienza che ha rischiato di dare una svolta dolorosa alla mia vita, sia stata la spinta principale a cambiare in senso libertario il mio insegnamento: la prima esercitazione scritta, in quarta ginnasio – “Novembre” -, in cui avevo parlato della povertà e della violenza nella mia famiglia contadina, anziché rimanere sul piano letterario, fu definita un’ “ottima scrittura”, ma “fuori tema”.
Fuori dall’aula scolastica e intraducibile nelle lingue colte restavano in altre parole esperienze cruciali dell’umano, confinate nel privato e naturalizzate. Tra queste, la violenza contro le donne. Per aprirsi a una educazione che potesse affrontarle e produrre cambiamenti significativi, era necessario innanzi tutto sgombrare il terreno da quei ruoli di potere e di controllo che ne hanno mantenuto così durevolmente la messa in ombra. Nel Diario che Elvio Fachinelli tenne su quanto avveniva nell’asilo autogestito di Porta Ticinese a Milano, (gennaio 1970), come risultato di un atteggiamento “antiautaritario”, inteso ad abolire quasi completamente la posizione dell’adulto, si legge: “…sembra di trovarsi in una società violenta, tra il fascista e il mafioso, in cui il più forte e più prepotente protegge quelli della sua famiglia e i rapporto con gli altri sono regolati appunto dalla sua forza e prepotenza (…) Qui la sola politica che abbia un minimo senso liberatorio -una politica necessaria anche se può apparirci impossibile – è una politica radicale, nel senso marxiano di “prendere l’uomo alla radice”. Ne deducevamo, allora come oggi, che per avviare una alternativa di comunità o, per usare il titolo di un interessante articolo di Roberto Ciccarelli, aprirsi a “Una vita liberata” (Derive e Approdi 2022), è necessario indagare prima di tutto la profondità del male.
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