Oggi apre l’anno giudiziario, a Roma. Domani in tutte e 26 le Corti d’Appello. Apre sotto pessimi auspici. Il timore è che il 2020 sia l’anno “nero” della Giustizia. La magistratura, che negli anni scorsi aveva vissuto momenti di divisione, di discussione – persino di pensiero critico – sembra essersi ricompattata.
È tornata a testuggine. Ora vuole avanzare con le ruspe. La discussione sulla prescrizione non l’ha vissuta come un momento di confronto, o magari di scontro – politico e di idee – ma come una battaglia per la difesa del proprio potere. Battaglia mortale. Fine della prescrizione come consacrazione dell’idea che un imputato vada consegnato al suo Pm, e il suo Pm (e poi i giudici, e poi i successivi Pm) possa avere su di lui un potere totale, incontrollato e perenne.
L’obiettivo è quello, ed è molto chiaro: rendere evidente e incontestabile la sottomissione dell’imputato al giudice, e in particolare al Pm. E poi qualcosa di più: fine della prescrizione come inizio di una riforma del processo che porti a una sensibile riduzione dei diritti della difesa, e poi all’abolizione dell’appello e alla riduzione da tre a due dei gradi di giudizio (dei quali uno solo di merito).
Il ragionamento è semplice: abbiamo cancellato la prescrizione e dunque ora dobbiamo abbreviare i tempi del processo. C’è un solo modo per ridurre i tempi del processo, senza investimenti e senza intaccare il potere della magistratura: ridurre gli spazi della difesa e i diritti del cittadino.
Questa linea, che all’inizio sembrava la bandiera di un settore minoritario della magistratura, ha finito per essere l’unica linea visibile. Ha trovato opposizione solo nelle Camere penali e tra i giuristi. Nei partiti – con l’eccezione di Forza Italia, che oggi però ha una forza molto limitata in Parlamento – nell’intellettualità, in parte larghissima del giornalismo, e soprattutto tra i magistrati, ha vinto il silenzio e l’ossequio ai Pm d’assalto, all’Anm, al ministro e al loro gruppo parlamentare a 5 Stelle.
Ora siamo alla vigilia dei discorsi. E le cerimonie si annunciano avvelenate. Gli avvocati penalisti di Milano hanno dato battaglia perché il Csm ha deciso di voler portare a casa il loro scalpo. Non si può leggere in nessun altro modo la decisione di mandare a Milano, alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario milanese, l’ex capo dell’Anm Piercamillo Davigo, poco noto come giurista ma notissimo come personaggio della Tv.
Gli avvocati milanesi non hanno mica sostenuto che bisogna levare a Davigo il diritto di parola, solo perché la sua idea di giustizia prevede, più o meno, l’abolizione della difesa (anche perché lui è sempre stato convinto che tra avvocato e imputato esista comunque un rapporto di complicità, molto disdicevole). Gli avvocati riconoscono a Davigo, come a chiunque, il diritto di sostenere ogni opinione, anche le più scombiccherate, e non pretendono che le opinioni siano necessariamente in linea con la Costituzione.
Non capiscono però per quale ragione il Csm debba considerare Davigo, e dunque il pensiero di Davigo, come specchio dell’identità della magistratura. Se davvero il Csm ritiene che la giurisdizione debba funzionare secondo i criteri di Davigo, è ovvio che l’avvocatura scompare. Diventa una specie di accessorio, quasi burocratico, e comunque del tutto subordinato alla magistratura.
Possibile che il Csm voglia seguire questa linea, entrando in contrasto con il codice di procedura penale e con la Costituzione Italiana? E se non è così, allora, perché mandare Davigo?
L’unica risposta è una risposta politica, e non c’entrano niente i principi né il pluralismo: il Csm, probabilmente pressato dalle correnti battagliere dell’Anm, ha deciso una provocazione, consapevole, per sfidare gli avvocati e ogni forza o flebile voce o pensiero liberale e garantista. Ha voluto usare un suo esponente, il più noto in Tv, anche forse spinto dalle campagne giornalistiche del Fatto, a occupare il territorio. A segnarlo, come fanno certi animali: questa è terra nostra, i difensori se ne vadano con gli imputati. Del resto il portavoce più importante della magistratura, che è il direttore del giornale – cioè del Fatto – Marco Travaglio, ieri nel suo editoriale si è posto provocatoriamente la domanda: e cosa c’entrano gli avvocati con l’anno giudiziario?
È tutta qui l’operazione politica del variegato e composito partito dei Pm. Dichiarare che la giustizia è quella cosa che spetta alla magistratura orientare e amministrare. Alla magistratura, alla magistratura e solo alla magistratura. Fuori gli avvocati. Fuori il legislatore. Fuori la politica.
Tra oggi e domani ascolteremo molti discorsi. Potremo valutare se dentro la magistratura ci sono ancora forze in grado di opporsi alla deriva autoritaria del davighismo. Speriamo di avere buone notizie. Una cosa è certa: si apre un anno feroce, nel quale può succedere di tutto. E la posta in gioco è gigantesca. È lo Stato di diritto. Quello che non sarà presente, domani, alla cerimonia di Milano.