Aveva 16 anni quando salì sulle barricate
Antonio Amoretti, partigiano delle Quattro Giornate di Napoli: “La guerra è inutile, significa morte e miseria”
“Napoli è stata la città più bombardata d’Italia. C’è stata gente che viveva nei ricoveri. Quello che vediamo adesso (con la guerra in Ucraina, ndr), noi lo abbiamo subito. E spero di non subirlo più”. Le parole di Antonio Amoretti, 95 anni, arrivano dritte al punto. Lui che a 16 anni ha combattuto durante le Quattro Giornate di Napoli sa bene cosa significhi una guerra. Era solo un ragazzino quando ha preso in mano la pistola per combattere contro il regime nazifascista e contribuire alla lotta degli altri partigiani per liberare la sua città, Napoli. “La guerra significa morte, miseria e tragedie”, dice.
Amoretti è l’ultimo dei partigiani delle Quattro Giornate a poter raccontare tutto quello che successe nelle 96 ore in cui i napoletani liberarono la città dai tedeschi tra il 27 e il 30 settembre 1943 durante la seconda guerra mondiale. Per lui quei ricordi sono indelebili. Ricorda perfettamente il giorno, il drammatico momento, in cui scoppiò la guerra. “Passavo per caso in piazza Vergini alla Sanità – racconta – Stavo tornado a casa da scuola. Ascoltai la dichiarazione di guerra di Mussolini. Arrivai a casa e trovai mia madre in lacrime. ‘Mammà, perché piangete?’, le chiesi. Lei mi rispose: ‘Figlio mio hai sentito? È scoppiata la guerra’. Io ero bambino e non capii subito e lei mi disse: ‘La guerra è una brutta cosa’. Diffusero il discorso di Mussolini per dichiarare guerra, dichiarare morte. Perché questo significa la guerra”.
Intanto suo padre aveva iniziato a frequentare una cellula antifascista cilentana che si riuniva nello studio medico di Ciccio Lanza, un dentista che viveva in via Foria. Se fossero arrivati i controlli lui avrebbe detto che quelli erano tutti clienti suoi”. Ed è così che Amoretti, ragazzino di 16 anni, venne a sapere dei combattimenti che ci sarebbero stati in città in quei giorni e decise di contribuire anche lui.
“Io avevo 16 anni e non ero destinato a insorgere – continua il racconto – Ma decisi di combattere. La mia sede da partigiano era in via del Cristallini (nel Rione Sanità, ndr) dove c’era il tenente Nicola Lembo, un disertore perché non si era presentato alle armi, e lui prese l’iniziativa di costruire le barricate nella zona di Piazza Carlo III. Era calabrese ma la sua fidanzata viveva in via dei Cristallini”. Impugnò le armi e combattè.
“Ritenevo di essere un buon tiratore perché andavo a caccia con mio nonno in Cilento – ricorda – I carrarmati tedeschi avevano delle feritoie. Io credevo che mirando lì avrei colpito il carrista. Solo dopo ho saputo che il carrarmato porta il periscopio. Tutte le botte che ho dato non servivano a niente”. Amoretti ricorda che tutti i napoletani parteciparono a quella insurrezione, fondamentale fu l’apporto delle donne. “Senza le donne le 4 giornate di Napoli non si facevano – ha detto – Hanno svolto un ruolo insostituibile. Facevano anche nascondere i maschietti. Una zia di mia moglie nascose per giorni un ragazzo in un tombino e lui da lì poteva sparare”.
“Il mio interesse per la politica inizia con l’emanazione delle leggi razziali. Ricordo chiaramente che papà un giorno tornò a casa arrabbiatissimo. Io ero piccolo, ma lo sentì dire a mia madre una cosa che non scorderò mai. Disse: ‘È uno schifo. Com’è possibile che gli ebrei che fino a ieri hanno combattuto con noi fianco a fianco erano italiani e adesso non lo sono più?’”.
Quando la guerra finì Amoretti tornò nel paesino dei nonni in Cilento. “Vidi tante croci – ricorda – chilometri di croci. E allora ho capito che la guerra è inutile e serve solo per far ammazzare i ragazzi. Sotto ogni croce c’è un corpo, tedesco, americano o italiano che sia. Il corpo di un essere vivo che aveva dato al sua giovinezza, la sua vitalità. A Napoli il cimitero era inagibile. Il 2 ottobre ci fu un corteo per accompagnare le salme dei patrioti, così li chiamavamo perché non esisteva ancora la parola partigiano, dal Liceo Sannazaro al campo sportivo”.
La memoria di tutto ciò che è stato per Amoretti è fondamentale. “A spese mie a via Marchese Campodisola ho voluto mettere una targa di marmo per ricordare la tragedia dei 14 carabinieri che non vollero arrendersi ai tedeschi, furono catturati e arrivati a Teverola furono tutti fucilati. Non potettero nemmeno essere seppelliti al cimitero, meritavano una targa che li ricordasse”. La memoria è ancora più importante oggi, nei giorni in cui la guerra in Ucraina miete vittime senza sosta. E la memoria di Amoretti è un monito per tutte le generazioni: “È importante ricordare perché le guerre sono tragedie”.
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