Antonio Landolfi mi incuriosiva per la sua dizione napoletana anche se talvolta parlava in romanesco. Lo apprezzavo per la sua cultura raffinata, il socialismo democratico di matrice europea. In particolare era studioso della sinistra francese guidata da Mitterrand. Cultore di un meridionalismo socialista di alto rango e privo di assistenzialismo, le peculiarità che meglio lo identificavano erano il sionismo, l’europeismo critico – non monetario né mercatista –, i diritti civili e il garantismo.

Sul caso Moro, ad esempio, coloro che si spesero moltissimo da garantisti furono Antonio Landolfi e Claudio Signorile, cercando di salvare lo statista democristiano. Guarda caso, in un numero di “Metropoli”, rivista di Potere operaio a cui Landolfi collaborava, in una edizione a fumetti i due socialisti furono i protagonisti del partito della trattativa contro quello della fermezza – Dc e Pci – e dell’ala militarista delle Brigate rosse. Landolfi fu sempre figlio della sinistra. Partì come giovanissimo studente antifascista partigiano, inconsapevolmente comunista, trotzkista e antistalinista, frequentò “i due pidocchi” Cucchi e Magnani, come li definì Togliatti, e fu liberal-socialista, ammiratore e lettore di Ignazio Silone, riformista autonomista nenniano- manciniano, laico e libertario amico di Marco Pannella. Il suo pensiero e la sua azione politica sono raccolti nel pregevole volume di Michele Drosi dal titolo: Antonio Landolfi. Socialista laico, liberale, libertario, garantista (Rubbettino, pp. 216, euro 15).

Con rigore di indagine, l’autore ricostruisce i diversi passaggi strettamente umani, politici, economici e meridionalistici intrattenuti con il dirigente socialista. E convintamente scrive: «Antonio Landolfi è stato per me un grande punto di riferimento e un maestro di politica che ha reso più solidi i miei convincimenti, che ha fortemente contribuito alla mia formazione politica e che ha irrobustito e arricchito il mio profilo culturale». La terra in cui Drosi e Landolfi si confrontavano spesso è la Calabria, tanto da far dire che questi, di origine napoletana, palermitano per costrizione durante il fascismo e cittadino romano è stato, a tutti gli effetti, cosentino di adozione. Grazie al leader socialista Giacomo Mancini, di cui fu suo braccio destro, il Nostro ricoprì incarichi pubblici e politici, in special modo quando Mancini divenne segretario nazionale del Psi.

Ancor prima, con Mancini all’apice della carriera governativa, Landolfi fu nei diversi ministeri – Sanità, Lavori pubblici, e Mezzogiorno – il suo addetto stampa anche se, in verità, ne fu il consigliere politico più ascoltato stando sempre un passo indietro al ministro cosentino. Insomma, nel cono d’ombra del potere. E al ministero della Sanità si trovò di fronte alla campagna vaccinale contro la poliomelite – l’antidoto era quello di Sabin – e, in quell’occasione, abilmente, come responsabile dell’ufficio stampa, organizzò una efficace pubblicità sui mass media. Nella permanenza di Mancini al ministero dei Lavori pubblici, dal 1964 in poi, ci fu la tragica frana di Agrigento e anche lì Landolfi fu prezioso collaboratore del ministro quando venne formulata e approvata poi, nel 1967, la legge che proibiva la lottizzazione di terreni a uso edificatorio. Personalità umile, mite e razionale, «intellettuale intrigante», come lo definì Franco Piperno, «e senza ambizioni sbagliate».

«Non è stato mai – ha scritto Ugo Intini – un uomo di potere e ha dato certamente al partito molto più di quanto ha ricevuto». Da senatore uscente, Bettino Craxi, per uno scontro politico con Giacomo Mancini, non lo presentò candidato alle elezioni politiche, nonostante lo stimasse. Si trattò di un gesto politico inconcepibile, causato dallo scontro tra Mancini e il segretario del Psi. In più parti del libro l’autore mette in evidenza che il protagonista non ha mai vissuto di luce riflessa, anzi tutt’altro. Giovanissimo giornalista, scoperchiò il vaso di Pandora di Giuffrè, “il banchiere di Dio”, ossia “il banchiere” della Dc. Fu una inchiesta portata avanti, nel 1958, da “Critica Sociale”, la rivista fondata da Filippo Turati. Giambattista Giuffrè, ex cassiere dalla Banca di Imola, amministrava il denaro di parrocchie, istituti religiosi e di privati cittadini in Romagna e in altre regioni, promettendo interessi pazzeschi. In realtà però si trattava di un imbroglio secondo il classico “schema di Ponzi”. Landolfi all’epoca ebbe i complimenti di Craxi: «Bel colpo, Antonio! Bel colpo!».

Drosi argomenta le numerose pubblicazioni in modo compiuto, indicando il Nostro come un incallito sostenitore della democrazia rappresentativa che incontrava già allora delle difficoltà a farsi rappresentare, mentre il populismo scorreva come un fiume carsico per poi emergere in modo impetuoso e devastante. Come carattere non aveva peli sulla lingua e Craxi lo sapeva bene. Basti pensare ai suoi interventi sulla gestione del partito. Del resto, chi meglio di Landolfi sapeva morte vita e miracoli del Psi, avendo scritto tante opere sull’organizzazione politica di via del Corso e su quella calabrese in particolare. Bettino, che con grande onesta intellettuale sapeva riconoscere i suoi errori, un giorno da Hammamet confessò: «L’unico che nel partito mi diceva la verità era Antonio Landolfi».