Nei suoi libri la storia della gente dell'agropontino
Antonio Pennacchi, chi era lo scrittore Premio Strega del 2010

«Lo scrittore non scrive per scelta, ma per condanna» diceva sempre Antonio. Anche per questo il demone della letteratura gli arrivò tardi, quando aveva già trentasei anni e una vita di sofferenza già alle spalle. «Ho cominciato a scrivere – aggiungeva – tre mesi dopo la morte di mio padre, se non avessi iniziato avrei dovuto rinascere». E quando, nel 2010, vince il Premio Strega con Canale Mussolini l’epigrafe del romanzo era esplicita: “A mio fratello Gianni, a tutti i nostri morti”, annotava dedicando il suo capolavoro al fratello maggiore, il bravissimo e coraggioso giornalista scomparso prematuramente qualche mese prima della pubblicazione del libro, da lui trasposto nel personaggio di Manrico nel romanzo autobiografico Il fasciocomunista. E ora che la morte ha colpito anticipatamente anche lui, e il dolore prostra tutti quelli che lo hanno conosciuto e gli hanno voluto bene, si comprende in pieno il senso del fare letteratura di Antonio Pennacchi: raccontare quella straordinaria epica che è la lotta nella quotidianità. «Io le storie – ha spiegato una volta – le caccio via, ne ho davvero tante intorno e dentro. Ogni famiglia ha i suoi scheletri nell’armadio, sono dolori veri. Si tende a nasconderli e invece bisogna tirarli fuori. Il narratore è quello che prende alcune storie e le fissa perché non vadano perse…».
Più che la sua storia politica personale, per il suo aver attraversato da irregolare e ribelle le grandi tentazioni novecentesche, o per il suo radicamento nelle vicende del territorio in cui si è svolta per intero la sua esistenza, l’agro pontino di Latina-Littoria, il tratto più specifico di Pennacchi sta tutto nella vocazione a ricordare e raccontare quella sofferenza e quel destino di morte dell’uomo che da Omero in avanti è “la” letteratura. Antonio ha riportato su carta stampata l’eco di una vocazione appresa non nei laboratori asettici dei critici letterari e delle scuole di scrittura ma nei bar, nelle osterie, nella bottega del barbiere, nelle tavolate in trattoria, nelle serate accanto al fuoco e, come ci ha spiegato bene una volta, nelle veglie funebri del passato. Antonio, infatti, sapeva tenere banco come pochi, era un vero fenomeno, ricordava e raccontava come un aedo dei nostri giorni. Sempre col suo berretto da Andy Capp e, d’inverno, con una sciarpa rossa. La sua è letteratura che nasce come fenomeno orale e dialogico e, solo dopo, diventa scrittura. Non a caso nelle pagine della sua opera i tratti stilistici sono sempre gli stessi: la voce narrante, che ricorda, fa digressioni, torna indietro, crea memoria, imbastisce una storia familiare che si fa storia collettiva.
Antonio ripeteva sempre di essere “venuto al mondo” per scrivere l’epopea della sua gente e della sua famiglia e che, ogni volta che consegnava un romanzo agli editori, si sentiva male per tutta la sofferenza che aveva tirato fuori e messo su pagina. Quando infatti arrivò il Premio Strega ammise di non aver vinto solo lui ma tutta la sua gente, tutti i suoi familiari del presente e del passato, il popolo protagonista di quella straordinaria epica che è la storia. «Mia moglie Ivana – aggiunse – è il vero autore, tutti i miei lavori nascono dalla sua forza. Lei mi dà la forza di lavorare…». E nei suoi libri c’è tutta la sua gente, i suoi nonni, la mamma che sparava agli americani invasori dell’Agro Pontino, gli zii, il fratello, i colleghi operai, gli amici…
La letteratura di Antonio, tutta intera, ha la caratteristica della coralità, non c’è mai una concessione all’individualismo e al minimalismo. Lo stesso romanzo che lo fece conoscere al grande pubblico – Il fasciocomunista. Vita scriteriata di Accio Benassi, che diventerà un film di Daniele Luchetti, Mio fratello è figlio unico – più che l’autoritratto dell’autore è la fotografia corale di una generazione. Certo, in (Antonio) Accio Benassi c’è tutta la sua personalità, la sua rabbia, la sua ansia di giustizia ma soprattutto c’è la sua terra, le sue famiglie, i suoi personaggi fuori schema. C’è soprattutto la storia. «Io – raccontava Pennacchi – non voglio rivedere niente, io voglio solo che per poter ragionare di storia lo si debba fare in maniera corretta, senza raccontare le fesserie. Anzi, a dire il vero, io il mio giudizio l’ho rivisto. E più di qualche volta. Man mano che facevo il viaggio…». Perché, in fondo, la sua vita avventurosa e la sua opera non è stata altro che un viaggio… Studi da geometra, militanza giovanile nel Msi, operaio a turni di notte alla Fulgorcavi, sindacalismo, iscrizione e frequenza quotidiana dell’università da adulto prendendo a pretesto un periodo di cassa integrazione, pubblicazione del primo libro a 44 anni, articoli sul mensile Limes e sul quotidiano L’Indipendente dopo l’uscita dei primi libri, prese di posizione pubbliche (anche politiche) sempre libere e controcorrente, vittoria allo Strega fuori della rosa dei favoriti… Ma su tutto ha sempre prevalso la sua grande umanità, il suo straordinario senso dell’amicizia. Non dimenticava mai di chiamare un amico non appena poteva, mai lesinava i suoi consigli e il suo aiuto. Come pochi davvero. Una squisitezza d’animo rara. Dimostrava una totale disponibilità ad aprirsi e ad ascoltare tutto ciò che gli si parava innanzi. Gli piaceva conoscere se stesso e il mondo cercandolo giustamente negli altri.
Per quegli strani presagi cui lui prestava molta attenzione chi scrive la mattina di martedì a Genova, acquistando i giornali in una edicola, si è imbattuto stranamente in una copia di Canale Mussolini posta in prima fila, sulle pile dei quotidiani del giorno. Impossibile non vederlo, non farci caso… Poche ore dopo è arrivata la notizia dell’improvvisa scomparsa di Antonio. Quello è stato forse il suo saluto, un congedo amicale per dirci che vive nella sua letteratura. Un addio che è nel suo stile.
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