Trovo interessante la scelta dell’Istituto Tecnico Rosa Luxemburg di Bologna che ha ideato un metodo alternativo -e creativo- per sanzionare comportamenti scorretti ed atti di bullismo dei suoi studenti. Agli alunni indisciplinati viene proposta una soluzione educativa che permette loro di prendersi cura di spazi verdi adeguatamente predisposti per consentire la cura dell’orto.
Questo espediente, che i più potrebbero associare alla parola “punizione”, ha notevoli risvolti positivi, tende infatti a sviluppare comportamenti responsabili anche a vantaggio della comunità scolastica, a favorire il ripristino della correttezza nelle relazioni tra pari e a sensibilizzare sul tema della sostenibilità ambientale. È quindi corretto parlare ancora di punizioni? La pedagogia ci insegna che la punizione, i castighi, hanno poco a che fare con la cultura dell’educazione. Ancor prima di parlare d’istruzione, sappiamo bene noi docenti, che l’atto primo deve essere dedicato all’educazione e costituisce un tassello essenziale nell’alleanza educativa con le famiglie. Scuola e famiglia rappresentano i primi cardini valoriali per offrire regole, sicurezza e la capacità di saper stare in contesti sociali.
Anche Don Bosco nella sua educazione preventiva, che si opponeva al metodo repressivo, ci suggeriva che la punizione non ha a che fare con le soluzioni, “a volte, dopo aver compiuto molti sforzi pazienti senza successo, ho ritenuto necessario ricorrere a misure severe, ma queste non hanno mai ottenuto niente”. La buona pratica green adottata dalla scuola emiliana favorisce la correzione di un errore commesso. Occorre farlo stando sempre attenti a non infliggere agli alunni alcuna umiliazione, non perché, come scrive Massimo Recalcati “non sia fondamentale in ogni processo educativo l’esperienza del limite e del riconoscimento delle proprie responsabilità, ma perché non c’è alcun valore educativo né nell’umiliazione, né nell’imposizione dell’umiltà.
Anzi, se c’è un compito etico della scuola è proprio quello di liberare le vite degli studenti dall’esperienza ingiusta dell’umiliazione e di quello dell’umiltà imposta”. Ecco, la scuola che sogno è una scuola aperta, inclusiva ed innovativa che non teme i cambiamenti ma li abbraccia, che sia palestra di talenti e che garantisca a tutti le stesse opportunità di partenza ma che dia spazio al merito. Quella dell’istituto bolognese è un’iniziativa lodevole che mi piacerebbe entrasse nell’offerta formativa in maniera organica e strutturale. Anche perché, la scuola che desidero non “punisce” ma è in grado di correggere e far sognare, senza generare mortificazioni. Che poi è la cosa più bella per chi, come noi, aspetta il futuro con l’ansia di chi vuole farne un posto migliore.