Gentile Ministra Marta Cartabia, porto ancora sulla pelle il rimorso di non aver capito, quando sono andata da parlamentare nel carcere di S. Vittore e l’ho incontrato, che l’ingegner Cagliari si sarebbe tolto la vita due giorni dopo. Era il 1993. Sono passati trent’anni. Ma quel “sovraffollamento” che trasforma il carcere nel “cimitero dei vivi” è ancora lì. Cerchiamo di salvare un detenuto in attesa di giudizio. Le scrivo con rispetto e con personale ammirazione fin dai tempi in cui, era il 2018, nella sua veste di vicepresidente della Corte Costituzionale, e con il Presidente Giorgio Lattanzi, fece il “Viaggio nelle carceri”, un inedito nella storia dell’Alta Corte e della gran parte delle istituzioni.

Lei incontrò fisicamente i detenuti in quell’occasione, e si aprì all’ascolto di coloro che sono “simboli della separazione, dell’esclusione, della marginalità”. E aveva ricordato in quell’occasione il giuramento dei padri costituenti “Mai più un carcere dei vivi”, mentre si accingevano a scrivere l’articolo 27 della legge delle leggi. Il più sacro e il più violato.
Oggi busso alla sua porta, ora che Lei è diventata Guardasigilli, per presentarle il detenuto in attesa di giudizio Giancarlo Pittelli, impegnato in un digiuno totale che intende portare “fino alla fine”, come scrive nelle lettere alla famiglia, con un’amarezza piena di rassegnazione che non ricorda neanche lontanamente la persona che era, avvocato brillante e politico accorto. Cioè personaggio svantaggiato, secondo la filosofia di certi pubblici ministeri, pronti al massimo di comprensione nei confronti di chi “ha rubato una mela”, ma vendicativi verso chi indossa la toga sbagliata, cioè quella del difensore e sprezzanti nei confronti dell’esponente politico, certi come sono che abbia rubato ben più di una mela.

Nella Sua relazione annuale al Parlamento dello scorso 19 gennaio, Lei ha sottolineato fin dalle prime parole «un obiettivo che ho ritenuto cruciale: riportare i tempi della giustizia entro limiti di ragionevolezza. Come chiede la Costituzione; come chiedono i principi europei». «Processi irragionevolmente lunghi –aveva detto poi- rappresentano un vulnus per tutti». E aveva citato, insieme alle vittime e ai condannati (sia colpevoli che innocenti), gli indagati e gli imputati «che subiscono oltre il necessario la ‘pena del processo’ e il connesso effetto di stigmatizzazione sociale».
Lei quel giorno ha parlato di Giancarlo Pittelli. Arrestato a Catanzaro il 19 dicembre 2019, spedito quasi subito a Nuoro, nel carcere speciale di Bad ‘e Carros. Impedito nei primi tempi di leggere (e con lui i suoi difensori) le migliaia (13.500, per la precisione) di pagine di un’inchiesta che si chiama “Rinascita Scott”. Centinaia di persone in manette, quella notte. Un processo che nelle intenzioni del procuratore Nicola Gratteri dovrebbe dargli la notorietà di Giovanni Falcone e del Maxi di Palermo degli anni novanta.

Il presidente Sergio Mattarella, nell’applauditissimo discorso tenuto nel giorno del giuramento, ha ricordato la necessità di superare il “sovraffollamento delle carceri”. Lei stessa, nella relazione di gennaio, lo aveva denunciato come «il primo e più grave tra tutti i problemi», con una percentuale di eccesso numerico del 114%. Ma noi sappiamo bene come si arriva a quei numeri. Le segnalo che l’avvocato Pittelli in quel carcere speciale di Nuoro è rimasto dieci mesi, in isolamento totale e senza mai essere interrogato dal suo giudice naturale. Sospettato di aver rivelato a un suo assistito la testimonianza di un “pentito”. E con un problema di genuinità di intercettazioni emerso quando i difensori sono finalmente riusciti a districarsi nelle migliaia di pagine del processo. Così in una conversazione in cui l’avvocato dice di non avere i verbali della deposizione del “pentito”, qualcuno ha aggiunto “ancora”, come a dire che prima o poi li avrebbe avuti a disposizione. Il che, glielo garantisce una giornalista che è stata per vent’anni cronista giudiziaria, fa un po’ sorridere. Come credo anche lei sappia, il mercato di carte coperte dal segreto tra pm, forze dell’ordine e giornalisti è tuttora fiorente, purtroppo.

Nonostante il suo puntuale tentativo di correzione. Ma c’è di peggio, in quelle intercettazioni. Perché se in riferimento alla casa di Giancarlo Pittelli un interlocutore che non lo conosce chiede “mafioso?” e l’altro risponde “no, avvocato”, togli quel punto interrogativo e togli la frase “no avvocato”, che cosa si deduce? Che sulla pelle dell’indagato-detenuto, anche questo è “sovraffollamento”. Perché in carcere si arriva dopo un blitz, ma poi ci si rimane anche perché si sono malamente trascritte le intercettazioni, perché la parola del “pentito” non è solo l’apriscatole, come diceva il giudice Falcone, ma la verità assoluta da non riscontrare neppure. Ma c’è un altro problema, cui lei ha già mostrato grande sensibilità. Dopo il blitz con 334 arrestati (complessivamente 416 indagati), 13.500 pagine di ordinanza di custodia cautelare, di cui 250 solo per elencare i capi di imputazione e cinque milioni di fotocopie trasportate in giro nella notte, il procuratore Gratteri non aveva potuto/voluto esimersi dal rendersi protagonista di una conferenza stampa.

Che importa se nel giro di pochi giorni 68 indagati erano già scarcerati, e altri ancora nelle settimane successive e i reati piano piano sgretolati? L’avvocato Pittelli, per esempio, da “mafioso” era presto diventato “concorrente esterno”, sospettato di quell’evanescenza del reato che non c’è, quello che mette insieme arbitrariamente gli articoli 416 e 110 del codice penale. E crea, attraverso la giurisprudenza, una nuova fattispecie di reato. Ma la “stigmatizzazione sociale” di cui lei, signora ministra, ha parlato nella sua relazione annuale, è stata peggio di un colpo di pistola ben mirato, dritto al petto. Erano state le parole del procuratore Gratteri: «Pittelli era l’anello di congiunzione tra il mondo di sopra e il mondo di sotto. Il raccordo tra la mafia e la società civile, tra la mafia e la massoneria». Testuale. Un Giano bifronte, era stato definito. E la sua legge sulla presunzione di innocenza? E l’adesione dell’Italia alla dichiarazione europea?

Lei si è riferita spesso al principio costituzionale previsto dall’articolo 111 sulla ragionevole durata del processo. Ma può essere ragionevole la durata di un maxi, come quello che si sta celebrando a Lamezia? Anche questo è “sovraffollamento”. Qualcuno potrà obiettare che a un certo punto l’avvocato Pittelli è arrivato alla detenzione domiciliare e che, se è ancora in carcere, se l’è cercata. Vero, se dimentichiamo che se , come lei stessa ha scritto, il processo è già “pena”, è altrettanto vero che a lungo andare, anche l’abitazione può diventare una gabbia, perché la libertà è anche il poter comunicare con gli altri, anche fuori dalla cerchia ristretta, per quando importante, dei familiari. Giancarlo Pittelli a un certo punto, con la disperazione di chi si sente prigioniero per sempre, dal domicilio ha scritto una lettera alla ministra Carfagna, sua ex collega al Parlamento.

Per chiedere aiuto, magari un po’ di conforto. Ed è stato sbattuto di nuovo in carcere, a Melfi. Dalle sue lettere emerge una grande solitudine, anche da prigioniero, e la voglia di finirla lì. Agli amici e ex compagni di scuola che stanno raccogliendo le firme (oltre 1.300 in pochi giorni) per mostrare vicinanza e affetto, e alcuni dei quali avevano iniziato a digiunare per lui, ha detto di non farlo, che non serve, perché lui andrà avanti “fino alla fine”. Si sente come uno che non ha più niente da perdere, dopo che gli hanno distrutto l’onore. Non ha neanche rubato una mela. È accusato di essere un “anello di congiunzione”. Sono passati due anni e deve ancora stare in carcere. Signora ministra, non le sto parlando di privilegiare un mio parente o amico. Le sto lanciando un grido d’allarme su un detenuto in attesa di giudizio. Cerchiamo di salvarlo.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.