Il ragionevole dubbio
Appello Eni, la procura generale sbarra la strada al pm De Pasquale
Non ci sarà il pubblico ministero Fabio De Pasquale sullo scranno dell’accusa al processo d’appello che si terrà nel prossimo autunno nei confronti dei dirigenti Eni, assolti in primo grado il 17 marzo 2021. La procuratrice generale di Milano Francesca Nanni ha deciso diversamente, affidando il ruolo dell’accusa a Celestina Gravina, magistrato di esperienza non seconda a quella di De Pasquale e che, almeno quanto lui, conosce la materia. Un doppio schiaffo morale per il pm che vanta nel suo curriculum la soddisfazione di esser stato l’unico ad aver portato alla condanna definitiva di Silvio Berlusconi fino alla sua espulsione dal Senato.
Il primo schiaffo deriva dal fatto che De Pasquale nel processo Eni-Nigeria aveva messo l’anima, la sua parte più pura e anche quella più discutibile, che lo vede oggi indagato a Brescia per rifiuto di atti d’ufficio, e anche oggetto di attenzione da parte della prima commissione del Csm che lo ha ascoltato a lungo nella giornata di lunedì, prima di decidere una sua eventuale incompatibilità con la sua permanenza in procura. Situazione non facile, per un pm che a Milano ha costruito tutta la sua carriera e la sua reputazione di uomo di sinistra inflessibile e senza paura di nessuno. Neanche del “dominus” Di Pietro, ai tempi di Mani Pulite, tanto da mettersi con lui in competizione per la gestione di un certo indagato e non aver timore di prenderlo a urlate nel corridoio.
Ma la ferita che oggi brucia di più è dovuta al fatto che De Pasquale teneva così tanto a questo processo da non aver avuto la forza di mettersi da parte dopo la sconfitta processuale subita nel primo grado. Tanto da non limitarsi a fare il ricorso in appello, cosa che in un paese da Stato di diritto non dovrebbe neanche essere consentita al pubblico ministero, se gli imputati sono stati assolti. Se il “ragionevole dubbio” avesse un senso. Ma il pm De Pasquale ha voluto strafare, chiedendo alla procura generale di essere proprio lui, personalmente, a rappresentare di nuovo l’accusa, anche nel secondo grado. La legge non lo vieta, purtroppo, e la contraddizione con il principio del “ragionevole dubbio”, che sta alla base della decisione del giudice, è palese. Come evitare, soprattutto nei processi di grande impatto mediatico, che l’opinione pubblica non veda da parte degli uffici dell’accusa una sorta di accanimento, se lo stesso pm, cioè la stessa persona in carne e ossa che è uscita sconfitta dal processo di primo grado, dà la sensazione di cercare di “rifarsi” nel secondo?
Una vittima di questo meccanismo è stato per esempio il povero Angelo Burzi, l’ex consigliere e assessore di Forza Italia in Regione Piemonte, morto suicida nello scorso dicembre, il cui testamento politico aveva rappresentato un atto d’accusa sull’amministrazione della giustizia. Burzi era finito, insieme a tanti, nella tenaglia dei processi chiamati “Rimborsopoli”. Era stato assolto in primo grado da un tribunale la cui presidente Silvia Begano Bersey, in seguito deceduta, era stata da lui apprezzata nelle sue lettere d’addio come “magistrato simbolo della terzietà del giudice”. Era poi accaduto l’imprevisto, l’imprevedibile. Il procuratore Giancarlo Avenati Bassi, che aveva sostenuto l’accusa nel primo processo, aveva chiesto e ottenuto di sedere sullo stesso scranno una seconda volta, fino a che aveva potuto portare a casa la soddisfazione del vedere condannati gli imputati.
E i dubbi ragionevoli? Pareva non averne avuti neppure il procuratore generale di Torino Francesco Saluzzo, il quale, piccato per la grande evidenza data dai giornali sul suicidio di Burzi e dalla diffusione delle sue lettere, aveva inondato le redazioni con un comunicato di due pagine che parevano una requisitoria. In cui aveva ignorato persino il fatto che una sua ex prestigiosa collega, stimata da tutti e compianta da numerosi messaggi su la Stampa quando era deceduta, aveva scritto parole molto precise e inoppugnabili sulla non colpevolezza degli ex assessori e consiglieri regionali piemontesi.
Possiamo dire, in senso lato, che Claudio De Scalzi, Paolo Scaroni e gli altri imputati dell’Eni che, se pur assolti “oltre ogni ragionevole dubbio” il 17 marzo 2021, torneranno di nuovo alla sbarra il prossimo autunno, sono stati più “fortunati” di Angelo Burzi. Perché la procuratrice generale di Milano Francesca Manni ha spezzato il meccanismo della coazione a ripetere che avrebbe potuto portare di nuovo Fabio De Pasquale sulla poltrona dell’accusatore nell’appello Eni-Nigeria. Lui aveva motivato la richiesta con l’esperienza e la conoscenza delle carte. Forse sottovalutando tutto quel che quel processo, con accuse e contro-accuse tra toghe, ha pesato per Milano e la sua procura. Tanto da aver comportato l’apertura di inchieste giudiziarie da parte della procura della repubblica di Brescia, competente nelle cause che riguardano i magistrati milanesi.
De Pasquale dovrà, insieme all’ex collega Fabio Storaro, dare tante le spiegazioni. Si dovrà accertare se i due pm d’aula del processo Eni hanno tenuto nascoste prove importanti a discarico degli imputati, e se hanno “protetto” le testimonianze di due personaggi discutibili come Pietro Amara e Vincenzo Armanna anche quando erano palesi le loro intenzioni calunniatorie. Che continuano a emergere, anche in questi giorni. Certo non migliorerà il suo umore sapere che quel ruolo di pg nel processo d’appello Eni sarà assunto dalla collega Celestina Gravina. Proprio lei che, nell’aprile dell’anno scorso, a ridosso della sentenza che aveva assolto Scaroni e De Scalzi, aveva svolto il ruolo dell’accusa nell’appello di un filone dello stesso processo, quello nei confronti di Gianluca Di Nardo e Emeka Obi, considerati intermediari della tangente Eni, che erano stati giudicati a parte perché avevano scelto il rito abbreviato. Il primo grado erano stati condannati. Ma nel secondo grado la procuratrice Gravina aveva completamente rovesciato l’ipotesi dell’accusa.
Intanto partendo all’attacco della Procura della repubblica per “l’enorme dispiego e spreco di risorse” che l’ufficio allora retto da Francesco Greco aveva dedicato alla vicenda Eni. E poi per la testimonianza di Vincenzo Armanna, quello che per i pm De Pasquale e Storari era un collaboratore preziosissimo. E che la pg invece considerava “un avvelenatore di pozzi bugiardo”, uno “che mescola verità e bugie”, “totalmente inaffidabile”. Poi, dopo aver spiegato a pm a giudici gli errori commessi anche nella qualificazione dei reati, la stoccata finale. “Sono stati assunti superficialmente dei fatti privi di prova fondati sul chiacchiericcio, sulla maldicenza, su elementi che mai sono stati valorizzati in alcun processo penale”.
Era stata inseguita “un’impostazione ideologica”, era stata la conclusione. Una bella lezione. L’assoluzione dei due imputati era stata richiesta e ottenuta. Queste sono le premesse di quel che sarà il processo d’autunno. Che forse si sarebbe potuto evitare, evitando anche l’ulteriore dispendio di denaro. Comunque andrà quel dibattimento, aver spezzato quella tentazione da parte del pm che perde il processo ad andare a rifarsi in appello, è stato un bel gesto da parte della procuratrice generale di Milano. Grazie, dottoressa Francesca Nanni. Chissà che non abbia aperto una strada che eviti, un domani, altre tragedie come quella di Angelo Burzi.
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