Alle cinque del pomeriggio di oggi, ora di New York, scade il tempo per pagare i 503 milioni di dollari di debito che l’Argentina ha con i detentori stranieri di alcuni dei suoi bond. Se non paga andrà in default. Il nono default della sua storia. Non sarà per ora un tonfo. Non sarà un crac rotondo, sonoro, drammatico come fu quello seguito alla crisi economica del 2001 con conti correnti congelati, depositi bancari in dollari trasformati a sorpresa in depositi in moneta nazionale (cioè polverizzati di valore in una notte, una rapina) grate a proteggere gli istituti di credito presi a sassate da signore infuriate e mezzo Paese scivolato nella miseria nera. Questo sarà un default blando, un «default virtual» dice il ministro dell’industria con un’ironia che dev’essere sfuggita ai creditori. Perché blando? Perché come debitrice l’Argentina, sempre abilissima a trattare, stavolta è anche fortunata. La ruota è girata così bene per il governo che il Fondo monetario internazionale, la bestia nera della propaganda nazionalista, è inusualmente oggi dalla parte di Buenos Aires. Una manna dal cielo per il presidente Alberto Fernàndez che sull’antiamericanismo peronista si è costruito una carriera politica.

Il Fmi ha già chiesto a febbraio ai creditori internazionali di accettare le proposte argentine di sconto sui bond. I creditori si trovano a dover accettare loro malgrado una trattativa. Pena: non vedere rimborsato nemmeno un centesimo del loro credito. Meglio avere meno del dovuto e chissà quando o meglio non avere nulla né ora né poi? Meglio poco che niente, suggerisce il Fondo.  La partita di Buenos Aires è doppia. Quei 503 milioni sono infatti solo una parte dei 67 miliardi di dollari di debito che il governo argentino vuole ristrutturare. Dettando le condizioni ora che può, finché la congiuntura lo permette. La maggior parte di quei bonus sono in mano a creditori stranieri, il 41% in mano a privati. Non solo fondi speculativi, quindi. Non solo «buitres», avvoltoi, come vorrebbe la propaganda peronista. Che stavolta, rispetto alle ristrutturazioni precedenti, con gli slogan e i manifesti ci va più cauta del solito per non imbarazzare il Fmi, gli economisti ortodossi che si ritrova magicamente dalla sua parte e per non mettere il bastone tra le ruote alla provvidenziale diplomazia vaticana.

Il ministro dell’economia, Martin Guzman, ha potuto così presentare con grandi sorrisi una proposta di rinegoziazione del debito che prevede per l’Argentina uno sconto del 5,4% sul capitale investito dai creditori e un taglio del 62% sugli interessi. La condizione più pesante messa da Guzman è un periodo di grazia (ossia un periodo durante il quale nemmeno un centesimo può essere richiesto indietro) di tre anni. Buenos aires non pagherebbe un dollaro fino al 2023. Dietro le quinte il tavolo di rinegoziazione è già aperto. Molti creditori sono indotti a pensare che sia sconviente rifiutare di netto la proposta e ricorrere a un tribunale per dirimere il caso proprio perché ci sono almeno tre anni di attesa prima di poter reclamare il primo pagamento. E tre anni sono un tempo lunghissimo per una causa di questo genere, può succedere di tutto nel frattempo. A chi di certo non conviene che i detentori di bond ricorrano a un tribunale e possano provocare così il default con tonfo assordante dell’Argentina è il Fondo monetario internazionale.

Perché? Perché il Fondo, sotto la direzione di Christine Lagarde oggi presidente della Banca centrale europea, nel giugno del 2018 ha concesso all’Argentina un prestito per l’incredibile cifra di 57 miliardi di dollari, il più grande prestito mai accordato dal Fmi nella sua storia.
A Buenos Aires al governo c’era allora l’imprenditore Mauricio Macri, market friendly, destra d’affari non peronista, invitato d’onore a Davos, salutato in quel consesso come il politico affidabile con gli occhi azzurri che aveva preso il posto del temibile clan patagonico dei Kirchner guidato dall’ex presidente Cristina, radical filochavista e leader della sinistra populista argentina, oggi di nuovo al governo come vice di quel Fernàndez, l’attuale presidente, che è stato per anni, chissà lo sia ancora, il suo braccio destro, l’uomo di mano della “Regina Cristina”. Buenos Aires, proprio in virtù di quel gigantesco prestito accordato dalla Lagarde a Macri, occupa da sola il 40% del credito a Paesi in difficoltà finanziaria concesso dal Fmi. Se non paga i detentori stranieri di bonus, tanto meno pagherà il Fondo. Quindi il Fmi si premura di essere il primo della lista. E non sbaglia i conti perché finora i suoi crediti li ha riscossi. Ma, soprattutto, essendo stato proprio il Fondo a spalancare la borsa con Buenos Aires, se quest’ultima dovesse crollare sotto il peso di un default insostenibile, il Fmi perderebbe la sua credibilità nelle partite di finanza globale. Ecco perché il sornione presidente Fernàndez sibila sotto i baffi: nessuno cade da solo. Il suo è un avvertimento. Inelegante, ma non infondato.

Ma perché la Lagarde concesse quel prestito favoloso a Buenos Aires che non aveva certo fama di essere una affidabilissima debitrice? Solo perché voleva dare una mano a Macri ed impedire (senza peraltro riuscirci) che tornassero alla Casa rosada i peronisti radicali della Kirchner rediviva che invece vinsero le elezioni dell’ottobre 2019? Risponde Eduardo Fidanza, analista politico argentino: «Trump ha avuto un ruolo di rilievo nell’influenzare il Fondo. Aveva interesse a limitare l’espansione della Cina che già si sta comprando tutto quel che può nella regione e ha investito tanto in Argentina. E così ha convinto il Fmi a sostenere Macri. Gli conveniva e gli conviene mantenere Buenos Aires dalla sua parte. Meglio tenersela che regalarla alla Cina».

Cristina Kirchner, nella sua ultima presidenza, aveva fatto preparare per il canale statale Encuentro un cartone animato per giustificare agli occhi dei militanti il default che incombeva anche allora. Il cartoon si chiamava Marziani. Sei puntate da venticinque minuti l’una, protagonisti tre piccoli extraterrestri verdi con gli occhioni, nel 3014 sbarcati sulla Terra e sbigottiti dal non trovare nessuna forma di vita, solo un cumulo di macerie. Causa della fine dell’umanità: il debito estero. La serie era stata prodotta dall’allora costituendo Museo del Debito estero. I peronisti avevano pensato anche al Museo per mettere le mani avanti. Con sede nella facoltà di Scienze economiche della Università di Buenos Aires. Il messaggio era che pagare non si dovrebbe mai perché l’origine del debito estero è un furto colossale e per questa ragione il debito è illegittimo.

Il cartoon era stato ordinato insieme a milioni di manifesti con cui era stata foderata Buenos Aires: Fondo affamatore del popolo, creditori avvoltoi. «Tutto ciò ora si è ribaltato – dice Fidanza – non conviene parlar pubblicamente male del Fmi che ci sta parando le spalle».
La ruota della fortuna sul debito gira bene, ma la situazione economica è drammatica. Il dollaro al mercato nero (el dólar blue) vale 130 pesos, il doppio che al cambio ufficiale. Consumi basici, biglietti degli autobus: tutto sovvenzionato dalle casse pubbliche impegnate in questi mesi di crisi causa Covid a pagare anche la metà degli stipendi dovuti dalle imprese private ai dipendenti. Ma i soldi dello Stato bastano a pagare tutto fino a quando? «Un mese, massimo due» prevede cupo Fidanza. «Almeno 50mila piccole e medie imprese argentine – ci dice Eduardo Fracchia, direttore di Economia della Business school della Universidad Austral – a breve chiuderanno».