L'intervista
Armi senza licenza agli agenti di pubblica sicurezza, anche se non sono in servizio. Risicato: “Una scelta che lascia perplessi”
Parla senza mezzi termini di «furore punitivo», di «tradimento del diritto penale liberale», Lucia Risicato, professoressa ordinaria di diritto penale nell’Università di Messina.
Eppure, questo DDL sicurezza vanta diversi precedenti…
Certamente anche il testo di legge oggi in via di approvazione si inserisce nel solco di provvedimenti adottati a partire dal 2008, da qualsiasi maggioranza governativa, ma li supera tutti: contiene, infatti, una proliferazione inusitata di reati assolutamente inutile e pericolosa. È davvero necessario, ad esempio, trasformare in reato il blocco stradale, se non allo scopo di criminalizzare le manifestazioni pacifiche di dissenso? Per tacere di un assetto sanzionatorio che diventa macroscopicamente sproporzionato rispetto all’entità dei fatti incriminati. Penso alla pena della reclusione fino a sette anni per l’occupazione abusiva di edifici. Un massimo edittale superiore a quello dell’omicidio colposo!
La sensazione è di trovarsi dinanzi a un caso in cui la risposta fornita dal legislatore consegue a una creazione artificiosa della domanda. Insomma, si lanciano messaggi di allarme e poi si risponde soltanto con il diritto penale.
È sicuramente così. La sensazione, rispetto ad un discutibile passato, è che si sia superato un limite ontologico. Si tradiscono assieme principi di rilievo costituzionale e caratteri fondanti del diritto penale. Se, in un sistema liberale, esso dovrebbe avere carattere frammentario e tassativo, questo disegno di legge ne costituisce la negazione. Tramonta il carattere offensivo dell’oggetto dell’incriminazione. Guardando agli istituendi delitti di rivolta carceraria e nei CPR, colpisce che si incrimini esplicitamente – e forse per la prima volta nella storia – la resistenza passiva dei detenuti o degli internati. Un segnale pericolosissimo perché è incriminazione della disobbedienza civile e non violenta. Ciò, peraltro, in un momento storico in cui le carceri italiane versano in una situazione drammatica. La nuova fattispecie sembra un rimedio brutale all’emergenza che non si è voluta affrontare sul piano del sovraffollamento.
Da avvocati penalisti, sottoscriviamo ogni sua affermazione. Il timore è che al corpo sociale sfugga l’entità del contrasto tra questo DDL e i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale. D’altra parte, però, non si può neppure sottovalutare il sentimento diffuso di insicurezza tra i cittadini, davanti a episodi di criminalità e di lesioni al decoro urbano. Un buon legislatore dovrebbe misurare e diversificare i suoi interventi, non illudendo il corpo sociale che con il continuo incremento di reati e pene si risolvano tutti i problemi. Alla studiosa di diritto penale chiediamo, comunque, se la prevenzione generale, come deterrenza rispetto al crimine, mantenga tutt’oggi una sua funzione. La percezione, infatti, è che chi è intenzionato a delinquere raramente vada a leggersi, prima di agire, le sanzioni stabilite dalla legge.
Andiamo con ordine. Intanto, esiste un problema di rappresentazione mediatica e politica del delitto, che influenza moltissimo l’opinione pubblica. Per utilizzare l’espressione bellissima del mio amico e collega Fausto Giunta, in Italia c’è un divario enorme tra la sicurezza reale e quella percepita. Dell’argomento si occupa diffusamente anche Luigi Ferrajoli nel suo ultimo libro Giustizia e politica. Leggendolo, il cittadino potrebbe apprendere che il tasso di omicidio in Italia è dello 0,45 per ogni 100.000 abitanti. Seguono Austria, Grecia, Portogallo e Spagna con un tasso dello 0,7; Olanda e Polonia con lo 0,8; Germania con l’1; Regno Unito con l’1,2; Francia con l’1,3, Estonia con 2,2, Ungheria con 2,5 e Russia con 9,2. Insomma, per grado di sicurezza, nel mondo, l’Italia è seconda soltanto al Giappone che ha un tasso dello 0,3. La c.d. sicurezza percepita è sensibilmente diversa da questi dati. Va però osservato che il tasso di omicidio e di crimini violenti è altissimo nei Paesi in cui il controllo delle armi da fuoco è pressoché inesistente. Proprio per questo, una delle disposizioni che mi ha lasciata più perplessa nel DDL è quella che autorizza gli agenti di pubblica sicurezza a portare senza licenza, anche quando non sono in servizio, alcune tipologie di armi (arma lunga da fuoco, rivoltella, pistola di qualsiasi misura, bastoni animati con lame di lunghezza inferiore a 65 cm.). Si tratta di una disposizione priva di ragioni politico-criminali, non legata a fattori contingenti di necessità o urgenza e inspiegabile anche nell’ottica di una sicurezza intesa a evitare le “broken windows” e mantenere l’ordine legale costituito.
In effetti, questo DDL è infarcito di norme che “privilegiano” gli appartenenti alla polizia (addirittura municipale e locale), mettendoli su un gradino superiore anche rispetto ad altri pubblici ufficiali.
Il provvedimento contiene l’affermazione inquietante che l’agente di pubblica sicurezza possa avere diritti superiori a quelli di qualsiasi cittadino nel difendersi e nell’offendere. Non mi sottraggo, però, al quesito più tecnico che riguarda la prevenzione generale. La funzione di prevenzione generale della pena si colloca nella fase della comminatoria edittale (cioè dell’astratta previsione normativa) e quindi è il frutto di opzioni di politica criminale volte a creare un effetto di deterrenza. Se vogliamo, però, che questo effetto sia reale, pervasivo e potente dobbiamo circoscriverlo a un ambito di reati particolarmente gravi. Occorre insomma operare serie distinzioni sul piano del disvalore delle condotte da prevenire e reprimere. Poco sopra, accennavo all’occupazione abusiva di immobili: ecco, sanzionarla con un massimo edittale così alto probabilmente non avrà in concreto alcuna efficacia deterrente. La repressione indiscriminata e severissima di condotte, tra loro assolutamente disomogenee sul piano del disvalore, significa negare ogni funzione alla prevenzione generale.
Ritiene azzardata l’affermazione secondo cui, per ritrovare una logica equivalente a quella che anima questo provvedimento, si deve fare un balzo indietro di quasi un secolo, fino al Codice Rocco del 1930? Stiamo marciando dritti verso uno Stato di polizia?
Ci stiamo avviando su una china scivolosa.Percepisco una deriva da democrazia illiberale. Riconosco che i proponenti abbiano avuto almeno l’attenzione di far passare attraverso il Parlamento questo disegno di legge (pur se è vero che le assemblee legislative vedono una preponderanza schiacciante di componenti espressione degli orientamenti della maggioranza di governo). C’è stata maggiore sensibilità istituzionale rispetto ai precedenti c.d. pacchetti – sicurezza, che erano tutti decreti-legge di emanazione governativa, poi convertiti in legge ordinaria. Probabilmente, lo scrupolo è dovuto al fatto innegabile che questo assetto di disposizioni è molto più repressivo di altri provvedimenti – anch’essi infelici – introdotti da altre maggioranze (il pensiero corre all’aggravante comune della clandestinità). Resta il fatto che siamo di fronte a un uso improprio del diritto penale come strumento di neutralizzazione del disagio sociale. Si afferma una logica emergenziale che vede sempre il “brutto, sporco e cattivo” come destinatario della norma penale. Logica che tanto ricorda il temibile diritto penale del nemico: da un lato i salvati (le persone per bene); dall’altro i sommersi (a cui sono negati i diritti elementari, compreso quello alla scheda telefonica).
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