Sarà “l’effetto SuperMario” o la conseguenza del grande terrore pandemico, ma questa Europa rappresentata da Ursula von der Leyen sembra diversa dall’“arcigna matrigna” che controllava i nostri conti pubblici con l’attenzione di un usuraio. Ora l’Europa si presenta col volto benevolo di una signora tedesca venuta a portarci, direttamente a casa e con una cerimonia formale che assume il carattere mediatico di una promozione, i primi 24,9 miliardi di euro che dovrebbero essere “operativi” entro luglio. A questo punto la domanda che sorge spontanea: quale sarà il modello di sviluppo per l’Italia del Next Generation Eu?

Romano Prodi ha parlato di un «balzo di tutta la nostra struttura produttiva» per stare al passo con i cambiamenti del mondo postpandemico. Ed è ovvio che, in questa prospettiva, dovrà essere invertita quella «deriva dell’Italia industriale» (per dirla con Giuseppe Berta) che ha caratterizzato l’ultimo trentennio della nostra storia segnando l’abbandono di quei settori – dall’informatica alla chimica, dall’aeronautica civile all’alta tecnologia – nei quali l’Italia primeggiava e che capitani d’industria meno intraprendenti dei loro padri hanno abbandonato per trasferirsi nei più tranquilli settori dell’industria leggera e della gestione dei servizi pubblici privatizzati. Scelte produttive che si adattano meglio alle piccole dimensioni dei distretti industriali tradizionali, caratterizzati da bassa conflittualità operaia, bassi salari, bassi investimenti in tecnologia e che non hanno bisogno di grandi infrastrutture, un’amministrazione pubblica efficiente e un sistema formativo competitivo e meritocratico. Questo capitalismo ben si è adattato alle condizioni “ambientali” del Paese, ma ha trascinato l’economia al di fuori del nucleo più sviluppato dell’economia-mondo per inserirlo nella semiperiferia, a confronto diretto con i Paesi appena usciti dal sottosviluppo.

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) dovrà invertire questa tendenza attraverso programmi di modernizzazione infrastrutturale e tecnologica in grado di preparare l’“ambiente” favorevole al salto tecnologico dell’industria italiana. Questa scelta sarebbe utile anche per l’economia meridionale. Vogliamo lasciare che l’economia del Sud sia associata solo al successo mondiale della ‘ndrangheta, considerata la quarta impresa italiana per fatturato? Gli investimenti del Pnrr dovranno essere rivolti a rafforzare i settori della struttura produttiva meridionale che hanno manifestato maggior dinamismo negli ultimi dieci anni: turismo, edilizia, ma anche agricoltura e industria che prima della pandemia mostravano una propensione alla penetrazione soprattutto negli Stati Uniti e nei Paesi BRICS verso i quali le esportazioni sono aumentate rispettivamente del  12,7 e dell’8,2% nel 2019.

L’auspicata e non più prorogabile modernizzazione dell’economia italiana dovrà riguardare anche il Sud, potenziandone le eccellenze, e dovrà essere accompagnata dai necessari interventi infrastrutturali sia materiali che di capitale sociale. In questo ambito la riforma di pubblica amministrazione, formazione scolastica e giustizia sono precondizioni indispensabili per aprire una nuova fase di sviluppo per il Mezzogiorno. Al drammatico quesito posto da Antonio Genovesi nel Settecento – se, cioè, «saremo sempre gli ultimi in Europa» – possiamo dare oggi una risposta positiva.