I signori Filippo e Giuseppe Graviano, ergastolani condannati per reati gravissimi legati a Cosa Nostra, sono liberi, come ogni detenuto, di difendersi, di dichiararsi non colpevoli, di tentare un alleggerimento della propria posizione accusando altri, di fare i dissociati o i pentiti anche a scapito di altri. In poche parole, è loro diritto anche inventarsi le solite balle nei confronti di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Vogliono agitare sotto il naso di qualche pubblico ministero il nome del presidente di Forza Italia come carotina per ingolosire? Liberissimi di giocare al gatto e il topo con l’amministrazione della giustizia per trarne qualche personale vantaggio. La prospettiva di un’intera vita al 41-bis non piace a nessuno.

Ma quel che è intollerabile, inaccettabile e persino un po’ disgustoso è il fatto che esistano ancora magistrati disponibili, fin dall’inizio degli anni novanta, quando qualche ambiente di barbe finte aveva tentato di incastrare Berlusconi con l’operazione “Oceano”, a credere che quelle carotine siano davvero commestibili. Soprattutto dopo che, una prima volta negli anni novanta e una seconda nei duemila, precedenti tentativi di indagare Berlusconi e Dell’Utri per collegamenti alle cosche sono falliti e le inchieste hanno portato sempre e solo all’archiviazione. Energie investigative e soldi pubblici buttati via. Finirà così anche questa volta. E c’è da domandarsi a che cosa possa portare tanta testardaggine nel continuare a frugare, scavare, sapendo benissimo che se i fratelli Graviano, così come i loro predecessori esperti nell’arte della calunnia, avessero davvero qualche storia di vita che possa anche solo aver sfiorato quella – intensa e sempre pubblica – di Berlusconi, sarebbero già diventati gli eroi dell’antimafia militante. Meglio di Spatuzza, forse addirittura meglio di Buscetta.

Due pubblici ministeri di Firenze che indagano sulle stragi (forse) mafiose del 1993 sono stati per cinque giorni a Palermo del novembre scorso. Ce lo raccontano i giornali in servizio permanente effettivo dalla parte dei Buoni contro colui che rappresenta il Male Assoluto. Funziona più o meno così: il settimanale L’Espresso, ridotto dalle glorie del passato a due paginette allegate come omaggio domenicale alla Repubblica, lancia l’amo come anticipazione il venerdì, disciplinatamente raccolto dal Fatto quotidiano del sabato. Apprendiamo così che il viaggio al sud è stato determinato dalle pubbliche, solite (nulla di nuovo) dichiarazioni di Giuseppe Graviano , nel novembre dell’anno scorso, davanti alla corte d’assise di Reggio Calabria, durante un processo che riguarda la ‘ndrangheta.

Una storia trita e ritrita e già archiviata: Giuseppe Graviano avrebbe incontrato due volte l’imprenditore (non ancora politico) Berlusconi in latitanza, ma poi ne sarebbe stato tradito perché il leader di Forza Italia, dopo aver vinto le elezioni nel 1994 non aveva eliminato l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario e neanche l’ergastolo. Che cosa c’entra tutto ciò con le stragi del 1993 su cui ancora indaga la procura di Firenze? Assolutamente niente. A meno che non esista davvero qualcuno che pensi che Berlusconi e Dell’Utri abbiano chiesto ai fratelli Graviano di mettere per loro conto le bombe in cambio di qualche riforma in tema di giustizia. Se mi è permessa una piccola divagazione, vorrei ricordare che Vittorio Sgarbi e io nel 1996 siamo stati indagati per concorso esterno in associazione mafiosa per otto mesi proprio perché nella campagna elettorale del 1994 in Calabria avevamo proposto quelle riforme come nostra iniziativa individuale. Riforme che il centro-destra quando fu al governo si guardò bene dall’attuare, proprio perché non le aveva nel programma. Ve lo immaginate Ignazio La Russa che abolisce il 41-bis? O Bossi che si impegna contro l’ergastolo? Roba da Pannella, piuttosto.

Non è chiaro se, come insinua il Fatto, Giuseppe Graviano abbia scelto il momento politico per lanciare il suo (piccolo) petardo, come già aveva fatto nel 2013 quando Silvio Berlusconi aveva aderito al governo di larghe intese guidato da Enrico Letta. Di certo non ha avuto un movente politico nel novembre 2020, quando c’era il governo Conte due e Forza Italia era all’opposizione. Ma forse la scelta politica e temporale l’hanno fatta proprio i giornali delusi dalla nascita del governo Draghi e incattiviti dalla presenza in maggioranza e anche dal rilancio politico di Berlusconi in Italia e in Europa. Non c’è oggi nessuna lettera, come quella inviata nel 2013 al ministro Lorenzin, in cui Graviano diceva che lo avevano obbligato a denunciare Berlusconi e che in caso contrario gli avrebbero attribuito tutte le stragi del 1993. Non c’è niente di niente che spieghi il momento scelto dall’Espresso e dal Fatto per pubblicare notizie di quattro mesi fa.

Notizie? Ma lo sono davvero? L’unico fatto è il viaggetto (spero non sia costato troppo) dei pubblici ministeri fiorentini in Sicilia. Starebbero anche indagando, senza senso del ridicolo, sulla nascita del patrimonio iniziale dell’imprenditore Berlusconi. E già, perché il nonno dei fratelli Graviano sarebbe stato una sorta di socio occulto per conto di Cosa Nostra. Tutto già esaminato e archiviato da tempo come barzelletta. Durante il viaggio i due pubblici ministeri avrebbero però effettuato una piccola deviazione al carcere di Terni, dove è ristretto il fratello maggiore di Giuseppe, Filippo Graviano. E qui il discorso si fa serio, perché questo detenuto da dieci anni si dichiara un “dissociato” da Cosa Nostra, e dopo 27 anni di permanenza al regime del carcere impermeabile previsto dall’articolo 41 bis e dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 2019, ha cominciato a chiedere di avere un permesso premio.

Ai magistrati ha però detto che non vuol parlare delle dichiarazioni di suo fratello se prima non si rimette in discussione la sua condanna per le bombe del 1993, rispetto alle quali si dichiara innocente. E si torna sempre lì, a quelle esplosioni (con vittime ) di Roma Milano e Firenze, che sono parse sempre strane rispetto agli obiettivi propri di Cosa Nostra. Ma non sono i fatti del passato a preoccupare oggi, piuttosto i messaggi. Perché ogni volta che Filippo Graviano prova a chiedere un permesso premio, ecco pronto il Fatto quotidiano a gridare allo scandalo, non senza ricordare che se un mafioso di quella levatura osa tanto, la colpa è della Corte Costituzionale e della sua sentenza che lo consente.

E oggi pare già presa di mira la neo ministra di giustizia. Ecco che cosa scrive l’Espresso: «E forse il boss, approfittando del nuovo cambio in via Arenula, sta pure pensando ad una lettera da inviare alla ministra della giustizia Marta Cartabia, per spiegare le sue ragioni da mafioso ed ergastolano che vuole uscire». Ecco, il gioco è fatto: da Graviano a Cartabia, passando per Berlusconi. Due piccioni con una fava. Qual è l’obiettivo dei professionisti dell’antimafia?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.