Ideatore dell’Ulivo, leader dei Democratici e Presidente della Assemblea Federale della Margherita, promotore delle prime primarie, membro del Comitato fondatore del Pd, al governo Sottosegretario alla Presidenza del Prodi 1 e Ministro della Difesa nel Prodi 2: i titoli di Arturo Parisi sarebbero tanti. Noi gli abbiamo chiesto una mano per capire cos’era il primo grande contenitore dei riformisti e come lo immagina nel prossimo futuro.

Partiamo dal ricordo. Come nacque l’idea di dare vita alla Margherita, e che cosa è stata?
«Chiariamo almeno che almeno questa non fu una delle tante pensate brillanti dei comunisti romani alla Bettini come leggo sul Riformista. Cito: “La gamba ‘centrista’ dei Ds, dove non arrivano gli eredi del Pci/Pds, ci dovevano pensare quelli della Margherita”. Sia quelli, come gli ex Dc, che tra noi immaginavano un Ulivo a due gambe, sia quelli come i Democratici ulivisti che lo avevano da sempre pensato come una storia nuova, né nuovo nome né somma di antiche storie, tutto avevano in mente fuorché uno dei tanti Partiti dei contadini inventato e diretto come nell’Europa dell’Est dal Partito guida. Fosse stato per me, che in quel momento guidavo i Democratici, quelli dell’Asinello, la Margherita non sarebbe mai nata. Diciamo pure che a provocarne la nascita fu il rifiuto di Veltroni, segretario Ds, a metterci in cammino per dar vita al Pd. Di che parliamo? Ci disse tra gli applausi al Congresso di Torino. Non vedete che nei Ds ci sono già tutte le anime della nostra democrazia? Non vi resta che entrare».

Tenere insieme storie, identità, sensibilità diverse non sarà stato facile. Come siete riusciti a smussare le spigolature, a tenere sotto controllo i leaderismi personali?
«Difficilissimo. Dopo la fase dell’entusiasmo alimentato dal successo elettorale registrato da Rutelli candidato nel 2001 alla guida dell’intero redivivo Ulivo, l’obiettivo che puntando alla unità del centrosinistra – mi raccomando! senza trattino – dava forza e senso alla nostra unità tornò a distinguerci dagli altri e a dividerci tra noi».

Quell’esperienza ha dato piena rappresentanza politica a un 14-15% di italiani moderati, centristi, liberali. Poi confluiti nel Pd.
«Come confluiti? Senza di loro il Pd non sarebbe mai nato. Parlo del Pd descritto ancora oggi nel simbolo come nato nel solco dell’Ulivo. Al centro di un centrosinistra unito attorno a un progetto per l’Italia, contro l’idea di un centro unito alla sinistra da un trattino che nel suo insieme proietta l’idea di rappresentare nient’altro che un nuovo nome della sequenza PCdI, Pci, Pds, Ds».

Questo Pd militante le piace? Elly Schlein rappresenta quella figura di sintesi tra le culture diverse a cui pensavate voi fondatori?
«Diciamo che rappresenta di certo la sfida, la prima vera di un mondo mutato e che continua a cambiare. Non foss’altro perché quando ci mettemmo in cammino era ancora bambina in Svizzera, e che espresse il suo primo voto nel nostro Paese quando la storia di cui parliamo era alla fine. Sintesi tra culture è un parolone. Sia se si pensa a quelle antiche della nostra politica. Ma non di meno se penso a quelle che hanno attraversato la sua biografia e la storia del suo mondo e della sua stessa famiglia».

Si parla di nuova Margherita, secondo lei può tornare una gamba riformista vicina al Pd, ma del tutto autonoma?
«Solo se si riparte da un progetto che ci tenga insieme, dentro il Pd e dentro un nuovo centrosinistra che compete unito per la guida del Paese cercando il mandato della maggioranza dei cittadini, grazie a una legge maggioritaria che rimetta nelle loro mani la scelta del governo e dei loro rappresentanti».

I riformisti sono in crisi: Renzi e Calenda hanno mancato il quorum alle Europee e ora subiscono il richiamo del centrosinistra. Possono essere loro a dare vita alla Margherita 2.0?
«Tutto inizia dall’inizio. E all’inizio sta una domanda semplice: a che pro? Se il fine è sopravvivere la strada che si fa se non è poca, è nulla. È troppo tempo che “la politica” è diventata nient’altro che un sinonimo de “i politici”. Diciamo pure che di fronte all’inarrestato ridursi della partecipazione elettorale, la domanda da porsi non è perché si vota sempre meno, ma perché sono ancora così tanti quelli che votano. Mettiamo al centro della scelta, non quale Italia vorrei se avessi da solo la maggioranza per realizzare i miei programmi, ma quale l’Italia che col tuo voto puoi contribuire a costruire. Come immaginare di continuare col messaggio “dammi la tua delega e ti faremo sapere poi cosa ne abbiamo fatto”».

Quale percorso proporrebbe? Una federazione, una campagna di avvicinamento, una fusione tout court tra i soggetti interessati?
«Mi scusi. Ho poca fantasia. Tendo a riverificare l’ipotesi che mi guidò tanti anni fa dentro un percorso simile. La mia convinzione è che è più difficile andar d’accordo in pochi che in molti. E allo stesso tempo che solo se si riesce a mettere di nuovo in campo un partito che punti a raccogliere almeno un terzo dell’elettorato si può ragionevolmente dire che l’obiettivo è il governo. L’unico motivo per il quale stanno in politica quelli che non la confondono con la protesta e la propaganda, o, più banalmente, come un impiego da conservare il più a lungo possibile in attesa della età della pensione. Se fossi esterno riaprirei innanzitutto un confronto col Pd, un confronto alla luce del sole. Esattamente come, dopo l’ultima cocente sconfitta, si è fatto su iniziativa Letta, quando con Articolo Uno, il partito di Bersani e D’Alema che con la segreteria di Speranza si era separato dal Pd, ancorché nella disattenzione dei più si è dato viva ad un Partito Nuovo che ha sostituto il vecchio Pd. Esattamente come lo scorso anno scommetterei di nuovo su primarie aperte, non solo per quel che riguarda l’elettorato attivo, a cittadini non iscritti al Pd, ma ancor di più anche sul lato dell’elettorato passivo alla candidatura come quella di Elly Schlein, non iscritta fino ad allora a nessuno dei due partiti promotori e garanti del processo costituente. È un primo passo. Credo che per ora basti. Da dentro il Pd io sarei per aprire il confronto all’insegna del criterio che è escluso solo chi si esclude. Dall’esterno io penso che sia una sfida che merita di essere lanciata. Nell’interesse del campo di centrosinistra, e di ognuno dei soggetti che si riconoscono in esso».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.