Una valanga di accuse spazzate via da una sentenza di assoluzione netta, radicalmente opposta a quanto deciso in primo grado: Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace (in provincia di Reggio Calabria), politico visionario sui modelli di accoglienza dei migranti, si trova anni dopo dall’inizio della tortura giudiziaria con una vita radicalmente stravolta, ma una sentenza d’assoluzione che lo riabilita rispetto a quella di condanna a 13 anni e 2 mesi che il Tribunale di Locri gli aveva consegnato nel 2021 e che all’alba dell’operazione “Xenia” gli era costata l’applicazione della misura cautelare degli arresti domiciliari (poi annullata).

Pochi giorni fa la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha depositato le motivazioni che nel 2023 hanno portato i magistrati a cancellare quasi tutti i reati contestati, conservando solo un’accusa di falso, relativo ad una delle 57 determine, firmata nel 2017, contestate dalla Procura in uno solo dei 19 capi di imputazione. Il resto, tra presunte associazioni a delinquere, truffa, peculati, è tutta attività che non ha portato all’accertamento di fattispecie criminose. A partire dalle intercettazioni che, secondo i giudici di secondo grado, “non erano (e non sono) utilizzabili nel caso di specie”. I giudici hanno evidenziato che “l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte per altro reato è pur sempre subordinata alla condizione che il nuovo reato sia a sua volta autorizzabile venendo in rilievo un limite imposto dalla legge e non certo oggetto di ‘creazione’ giurisprudenziale’”. Un timbro non da poco e che dovrebbe far suonare l’allarme per chi, moltissime volte, si vede proiettato in un processo penale attraverso delle intercettazioni che, come in questo caso, non potevano entrare nella partita.

Di ingiustizia, appunto, parla lo stesso Lucano commentando la decisione: “Ho accolto la sentenza di assoluzione della Corte di appello con orgoglio e soddisfazione, è l’uscita da un tunnel che ho vissuto come una mortificazione della mia anima. La mia sofferenza non era legata agli anni di galera ma al tentativo di infangare il senso di una vita, il mio impegno sociale. Abbiamo dimostrato che l’accoglienza non è il problema ma la soluzione, questo messaggio inedito ha sconvolto il paradigma delle destre e la retorica dei porti chiusi. Il mio incubo era che l’azione giudiziaria avesse generato un dubbio ma ieri ho vissuto la liberazione della mia anima. Non volevo sconti, volevo un’assoluzione morale piena. Ho subito un’ingiustizia”.

Ma è la Corte d’Appello a fissare i paletti di ciò che non ha condiviso con il Tribunale di Locri e che è stato da sempre gridato ad alta voce dai difensori di Lucano, gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia. Dalla fase preliminare, dunque, in riferimento all’accusa di associazione a delinquere secondo i magistrati di secondo grado “non è emerso nulla per ritenere provati nessuno degli elementi che, nella pratica giudiziaria, vengono valorizzati per dimostrare l’esistenza di una struttura associativa”. Anche il reato di truffa sembra essere difettoso, mancando “la prova degli elementi costitutivi del reato”. Cambiano le parole utilizzate ma il refrain per il peculato è simile: “Non è configurabile per la gestione e destinazione di somme di provenienza pubblica, anche dopo la loro corresponsione, quale corrispettivo del servizio, pattuito a seguito di apposito contratto e prestato”.

A partire dalle intercettazioni che, secondo la Corte d’Appello “non erano (e non sono) utilizzabili nel caso di specie”. Rifacendosi a quanto stabilito dalla Cassazione, infatti, nella sentenza depositata in questi giorni, i giudici spiegano che “l’utilizzabilità delle intercettazioni disposte per altro reato è pur sempre subordinata alla condizione che il nuovo reato sia a sua volta autorizzabile venendo in rilievo un limite imposto dalla legge e non certo oggetto di ‘creazione’ giurisprudenziale’”.
Frasi che si leggono sul dispositivo della Corte d’Appello e che non gliele manda a dire ai colleghi di Locri, che per alcune ipotesi di reato hanno “dato al fatto una diversa qualificazione giuridica, il che pone il problema” dell’utilizzabilità delle conversazioni “per reati non autonomamente intercettabili”. Il problema è di metodo: “Significherebbe da un lato svuotare di contenuto la funzione di garanzia propria del provvedimento autorizzativo, dall’altro, trasfigurare il decreto in una sorta di ‘autorizzazione in bianco’, in aperto contrasto con la riserva di cui all’articolo 15 della Costituzione”. Ma non è solo il metodo ad essere censurato, perché anche la pur accertata inutilizzabilità dei dialoghi, non impedisce di individuare elementi di prova favorevoli agli imputati, i quali erano accusati anche dei prelievi “di somme di denaro in contanti” dai conti correnti delle associazioni impegnate nell’accoglienza dei migranti. “Un dato meramente presuntivo. Era necessario fornire prova (in specie del tutto mancante) dell’effettivo impiego, e soprattutto dell’impiego illecito, delle somme prelevate dai vari rappresentanti legali, prova il cui onere incombeva sul pm”.

Edoardo Corasaniti

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