Dopo la sentenza in Appello
Assoluzioni Bagnoli, ecco come la difesa ha demolito le accuse di pm e consulenti

L’altra sera la sentenza della Corte d’appello di Napoli ha dato un taglio netto alla tesi della Procura sulla bonifica di Bagnoli. Ha azzerato le accuse, demolito le ricostruzioni dei consulenti, ribaltato le conclusioni di chi descriveva scenari apocalittici e avvelenamenti senza precedenti. Ed ha dato spazio alle tesi della difesa e degli imputati, alle relazioni dei consulenti assunti per confutare con dati e analisi alla mano che il disastro non c’era. Ed eccoli quindi gli argomenti che la difesa ha messo in evidenza, eccoli i colpi di piccone con cui è stata fatta venire giù l’impalcatura accusatoria.
Non dimentichiamo che di mezzo ci sono vite e carriere, persone e professionisti, soldi (tanti, quelli pubblici che sono serviti a pagare quindici anni fra indagini, consulenze, intercettazioni e processi, e quelli privati di chi ha dovuto pagare avvocati e consulenti di parte per dimostrare di non avere responsabilità), iniziative e investimenti che su quel pezzo di Napoli (Bagnoli e la sua area industriale da riqualificare e trasformare in parchi e case) sono rimaste bloccate per anni, per molti anni. Ieri, alla luce dell’esito del processo d’appello, tutti a ricordare le potenzialità di quella porzione di città lasciata per decenni abbandonata. Bisognerà attendere il deposito delle motivazioni previsto tra novanta giorni per capire come i giudici spiegano il disastro giudiziario e negano il disastro ambientale. Un’idea, però, ce la si può cominciare a fare sintetizzando le tesi su cui gli imputati e i loro difensori si sono impegnati e battuti in tutti questi anni di indagini e processi.
Basta pensare che il fascicolo ha come anno di iscrizione il 2007. Il conto è presto fatto. La Procura ha seguito la pista della bonifica fatta male, anzi peggio al punto da contestare il disastro che da doloso è poi diventato colposo nel corso dell’iter giudiziario. Aveva indagato, per esempio, sulla bonifica, sulla riqualificazione di aree che dovevano essere destinate a verde attrezzato o a uso residenziale. Ebbene, la difesa ha dimostrato che la bonifica è stata compiuta, che i risultati della cosiddetta colonna B (quella destinata ad attività commerciali, palestre, uffici e anche scuole e dunque un livello approvato per legge) erano stati raggiunti. Se in qualche punto il terreno era risultato mischiato a quello destinato ad uso residenziale (corrispondente a quella che tecnicamente viene indicata come colonna A) si sarebbe potuto al più contestare un errore di esecuzione (per il quale eventualmente chiamare a risponderne le ditte esecutrici più che gli amministratori pubblici) ma non il disastro, perché il livello di bonifica certificato per legge era stato comunque raggiunto. E poi c’è il capitolo consulenti.
Il confronto tra accusa e difesa si è concentrato anche sulla opportunità della scelta, sulle competenze, sul tipo di lavoro e di analisi svolte. Quelli nominati dalla Procura hanno descritto scenari in parte già sconfessati in primo grado, tanto che alle assoluzioni disposte al termine del processo dinanzi al tribunale (che a sua volta nominò un superperito) la Procura non ha mai presentato ricorso, e per la restante parte sconfessati dalla sentenza in Appello. A proposito della colmata, per esempio, era stato dipinto un quadro del tutto inesistente senza che neppure ci fossero state delle verifiche in loco. In dibattimento risultò che i consulenti della Procura non sapevano cosa fosse il canale bianchettaro, non sapevano quali erano le caratteristiche, non avevano fatto verifiche nelle vasche di confluenza a mare per verificare se ci fossero reflui inquinati o quant’altro. È stata l’affermazione di un principio che, evidentemente, hanno ripetuto poi anche per quello che riguardava la zona dell’ex Italsider.
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