Non era mai accaduto. Certo, il fenomeno dell’astensionismo è da anni in sensibile crescita, ma l’affluenza alle urne nel nostro Paese non aveva mai raggiunto il dato del 63,91% dei votanti. Il più basso di sempre. Deve far riflettere l’enorme crollo dell’affluenza in Campania, dove solo il 53,4% degli aventi diritto si è recato alle urne, contro il 65,4% del 2018. Per non dire della città di Napoli dove ha votato il 50,8% degli elettori contro il 65,3% del 2018.
Non si può sfuggire a questa realtà con una reprimenda da parte di chi, cittadino modello, ha invece esercitato il diritto di voto in nome di una superiorità morale e culturale. Se il primo partito oggi, in Italia, si chiama astensionismo, è bene che la riflessione post voto parta da qui. Dal dato che deve indurre la politica a interrogarsi seriamente, a mettersi in discussione per davvero. Senza eludere la domanda basilare: perché così tanti italiani hanno deciso di non andare a votare? A mio parere hanno inciso su questo esito due elementi fondamentali. Dopo la fine della prima Repubblica, il ricorso ai tecnici che non si sono sottoposti al giudizio degli elettori, per la guida del governo è diventato pervasivo. Ciampi, Dini, Monti, Draghi, l’eccezione è diventata quasi una regola.
Una consuetudine che ha posto in cattiva luce il Parlamento, apparso agli occhi dei cittadini elettori incapace di sciogliere i nodi che ne frenano lo sviluppo. Delegare il compito di guidare il Paese a personalità autorevoli, catapultate al vertice dell’esecutivo da altri contesti, è il primo motore della «disaffezione» che oggi conosciamo. Secondo elemento. Diciamolo fuori dai denti. E’ stata una campagna elettorale lontana dalle esigenze vere degli elettori, a lungo dominata dalle ingerenze russe sulla politica italiana e dalla diatriba salottiera su «Bella Ciao»: è una canzone divisiva sì o no? Troppa è stata la distanza dalle asprezze che vive sulla sua pelle il Paese reale, con un tessuto produttivo esposto gravemente alle impennate del costo delle risorse energetiche.
Ed è sintomatico che solo Papa Francesco abbia avuto il coraggio di ricondurre il dibattito in un alveo più concreto, più rispettoso del disagio degli italiani, parlando di lavoro dinanzi a cinquemila imprenditori e al presidente di Confindustria. In quella circostanza Papa Francesco ha avuto il merito, tra l’altro, di richiamare l’esempio di un grande italiano, Adriano Olivetti, che considerava l’impresa una «realtà spirituale» capace di mettere capitale e lavoro dinanzi alla necessità di condividere idee, progetti, obiettivi e risultati, che cresce sulla base del senso di appartenenza a un destino comune. Ma Olivetti va ricordato anche per il suo progetto politico, basato sul Movimento di Comunità e sulla «democrazia senza partiti», che è anche il titolo di un suo saggio che anticipa di alcuni decenni la crisi del rapporto tra partiti politici ed elettori che viviamo oggi. Perché anticipa, già a metà del secolo scorso, la critica alla partitocrazia che si è poi manifestata con asprezza negli anni Novanta.
Per Olivetti i partiti hanno un limite che non può essere superato: rappresentano una parte, vale a dire un solo aspetto della vita multiforme. Sono «entità rissose e non pacifiche, intolleranti e non conciliative, parziali e non eque, eccessive e non moderate, volgari e non generose…», una condanna senza appello. Alla democrazia autoritaria dei partiti, Olivetti oppone una democrazia «integrata» una forma nuova di rappresentanza più forte, più efficiente della democrazia ordinaria. E lo dice a chiare lettere. Falliremmo la nostra meta se seguissimo metodi tradizionali. Se per instaurare l’Ordine delle Comunità dovessimo ricorrere all’inquadramento di forze di un normale partito politico. Forse l’affermazione senza precedenti dell’astensionismo alle urne chiama a un impegno: ripensare in profondità il suo insegnamento.