Solo tre settimane fa è avvenuto l’attacco terroristico in Kosovo – e ad oggi sembra che ci si sia dimenticati di ciò che è successo. I cittadini si chiedono perché non siano stata decise sanzioni per la Serbia; a livello di Unione europea invece continua a regnare il silenzio. Va detto che nel frattempo si sono verificate altre crisi a livello internazionale, molto più complicate – come l’attacco terroristico in Israele – ma è anche vero che il problema Serbia non è ancora risolto, e rischia di diventare (o di essere già) una bomba ad orologeria.

L’attacco al Nord del Kosovo è avvenuto in un territorio in cui dimora una minoranza serba – spesso e volentieri minacciata dal governo di Belgrado, che cerca di introdursi nella politica locale”. Molti sono gli esempi di questi tentativi. Ci si è accorti dell’esistenza, inoltre, di più di 30 basi militari serbe localizzate al confine con il Kosovo. Proprio queste basi erano state il motivo scatenante per cui a maggio 2023 il primo ministro kosovaro, Albin Kurti, aveva deciso di inviare più polizia al Nord. Tale mossa aveva naturalmente infastidito la Serbia, ma al contempo anche gli attori internazionali, che stavano cercando di continuare a portare avanti il dialogo tra i due paesi.

Oltre a questi avvenimenti, le investigazioni kosovare hanno mostrato elementi che riportano una parte attiva della Serbia nell’organizzazione di questo attacco terroristico, e ormai sono elementi impossibili da smentire, considerato che le armi usate nell’attentato sono di chiara fabbricazione serba e sono entrate in Kosovo utilizzando delle ambulanze, non controllate dalle truppe KFOR (le truppe NATO presenti sul territorio). Il governo kosovaro ha prontamente rilasciato le informazioni essenziali legate al caso, per permettere agli attori internazionali di capire meglio la situazione e di prendere delle prime misure essenziali contro la Serbia, ma anche per capire che effettivamente la situazione non può essere considerata in modo equidistante. Se la Serbia avesse continuato a smentire, o se addirittura avesse fatto un passo avanti nei confronti del Kosovo, sarebbe stato solo uno dei tanti incidenti successi tra Kosovo e Serbia in questi mesi. Poiché però la Serbia, tramite il suo presidente Vucic, ha ammesso di aver supportato Milan Radojevic, il leader kosovaro serbo vicepresidente della Srpska Lista (partito serbo in Kosovo) ormai è impossibile negare che sia stato un vero e proprio tentativo di destabilizzare il Kosovo, soprattutto perché ogni giorno si aggiungono ulteriori dettagli e notizie concrete sull’organizzazione dell’attacco.

Ci sono poi politici e giornalisti che tendono a sottolineare quanto l’attacco fosse pensato in maniera simile all’invasione Ucraina; un’affermazione forte, che va considerata, ma in modo cauto. Ciò che preoccupa (e secondo chi scrive è una dimostrazione gravissima di non azione) è la posizione dell’Unione europea, che a tre settimane dall’attacco ancora non si è mossa nei confronti della Serbia – mentre era stata molto celere ad imporre sanzioni al Kosovo (per le elezioni nel Nord del Kosovo, perché la minoranza serba non aveva partecipato e gli eletti sindaci albanesi facevano resistenza e non volevano ripetere le elezioni) nonostante non ci fossero stati episodi violenti. Su questo è necessaria una seria riflessione: la posizione dell’EU si muove fra due pesi e due misure, mentre sarebbe più opportuno mettere in atto una politica che punisce e premia in egual misura chi sbaglia o chi si impegna nel miglioramento della situazione. A mio avviso il faro dell’Unione europea dovrebbe essere la seconda opzione, che potrebbe diventare un aiuto alla politica estera unionale, già molto problematica per i veti incrociati e l’impossibilità di azione rapida, se non è presente l’unanimità del voto di tutti gli stati membri.

La mancanza di reazioni da parte dell’Unione europea rischia di far vacillare il sentimento pro europeista degli abitanti del Kosovo, che fra tutti i paesi dei Balcani sono quelli che supportano maggiormente l’adesione all’Unione. La Serbia è il paese con l’approvazione più bassa. Non possiamo non chiederci, come appartenenti all’EU, se preferiamo sostenere un paese che sta lottando per farsi riconoscere, lavorando internamente per le riforme dovute per lo stato di diritto, o un paese che segue il modello Ungheria? (che non rispetta lo stato di diritto e che non segue l’Unione europea, quanto la Russia?)
Il primo ministro Kurti in questi giorni è stato molto chiaro: c’è il rischio concreto di altri attacchi. Durante il consiglio dei ministri ha sostenuto che l’intelligence kosovara ha informazioni concrete su gang di criminali serbi nel Nord del Kosovo pronte a creare ulteriori attacchi e a fare in modo che la colpa ricada sulla polizia kosovara. E l’Unione europea in tutto questo? Il commissario europeo Varhelji si è incontrato con la ministra serba per i temi europei, e ha scritto (in un tweet molto politico) che la Serbia mette al primo posto l’Unione europea. Assolutamente contraddittorio rispetto a quello che Vucic stesso continua a ribadire in ogni suo discorso – e rispetto al fatto che Vucic, invece di andare all’incontro relativo al Processo di Berlino con gli altri colleghi dei Balcani, se ne andrà in Cina. È evidente che gli equilibri per la Serbia sono lontani dall’Unione europea già da tempo – basti vedere anche il rapporto con la Russia. Ad ogni modo, il tweet del Commissario è stato un colpo per la comunità kosovara, che si aspettava un minimo di sostegno europeo. Se non stiamo attenti rischiamo davvero di abbandonare l’unico paese dei Balcani che, pur essendo piccolo ed avendo difficoltà concrete, sta facendo passi avanti, soprattutto dal punto di vista dello stato di diritto.

A questo punto, pare necessario che alla Serbia venga imposta una qualche misura. Che si tratti di sanzioni, di minaccia di blocco dei fondi europei per un periodo, o della sospensione delle negoziazioni per l’adesione. Tali interventi non servono solo al Kosovo o alla Serbia, ma anche all’Unione europea: sta perdendo credibilità nei Balcani, e la sua unica speranza di riprenderla è cambiare approccio nella regione. Avere un approccio egualitario: il Kosovo era stato sanzionato per non aver rispettato l’accordo; adesso è la Serbia a non rispettarlo e in più usa la violenza. Solo così si potrà tornare a un dialogo serio. Perché chiedere al Kosovo di tornare al tavolo senza una minima conseguenza per la Serbia, non è ammissibile.

L’Importante però è anche non dimenticarsi che il pericolo dell’esplosione improvvisa nei Balcani c’è sempre; per questo è importante non fermarsi alle apparenze, ma cercare di capire che cosa succede davvero. Come ha ripetuto bene Matteo Renzi più volte questa settimana, “nessuno parla dei Balcani”. E non parlandone, poi non dobbiamo stupirci se la situazione esplode e noi non sappiamo come gestirla perché non capiamo le varie sfumature.

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Nata a Trento, laureata in Scienze Politiche all’Universitá di Innsbruck, ho due master in Studi Europei (Freie Universität Berlin e College of Europe Natolin) con una specializzazione in Storia europea e una tesi di laurea sui crimini di guerra ed elaborazione del passato in Germania e in Bosnia ed Erzegovina. Sono appassionata dei Balcani e della Bosnia ed Erzegovina in particolare, dove ho vissuto sei mesi e anche imparato il bosniaco.