Il lavoro di due ricercatori sull'attentato al ghetto
Attentato al ghetto ebraico di Roma, fu solo un colpevole errore?

Ci sono voluti 40 anni e il lavoro tenace di due ricercatori, Gabriele Paradisi e Giordana Terracina, per squarciare la cortina di reticenze e omertà intorno all’attentato contro la Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982. Si celebravano lo Shabbat, il Bar Mitzvah di molti giovani ebrei e la fine della festività di Sukkot: la Sinagoga era piena. All’uscita cinque terroristi palestinesi aprirono il fuoco sulla folla. Uccisero un bambino, Stefano Gaj Taché, ferirono 40 persone. Fu il più grave attentato antisemita in Italia dalla fine della guerra.
A 26 anni dall’attacco l’ex presidente della Repubblica Cossiga, in un’intervista al giornale israeliano Yediot Aharonot, aveva mosso un’accusa terribile, fragorosa eppure ignorata da tutti: l’attentato era stato coperto, consentito e permesso dalle autorità italiane per l’accordo in base al quale i palestinesi, in cambio di una piena libertà di movimento anche nei trasporti di armi, si impegnavano a non colpire obiettivi italiani, a meno che collaborassero con il sionismo e con lo Stato di Israele. Una licenza di uccidere gli ebrei, secondo Cossiga. Di nubi su quella mattina tragica e sulle successive indagini ce ne sono e ce ne sono sempre stati molti. Ma l’elemento chiave per valutare il peso delle accuse dell’ex presidente, a conti fatti, è uno solo: quel giorno la Sinagoga era stata lasciata del tutto indifesa per un colpevole errore oppure appositamente? Nel clima di vero e proprio antisemitismo che si era diffuso dopo l’invasione del Libano parlare di attentato impossibile da prevedere sarebbe assurdo.
Appena pochi giorni prima un gruppo di partecipanti a una manifestazione sindacale aveva deposto una bara proprio di fronte alla Sinagoga di Roma. La tensione, la minaccia, il pericolo si avvertivano a pelle. Però neppure questo è sufficiente per autorizzare il sospetto di dolo. Per avvalorare quei dubbi, e di conseguenza il j’accuse di Cossiga, dovevano esserci documenti in grado di dimostrare che lo Stato e le forze dell’ordine erano al corrente della minaccia, che erano stati avvertiti più volte e da fonti affidabili ma scelsero di ignorare l’allarme. Quei documenti Terracina li ha rintracciati e questo giornale li ha pubblicati il 9 dicembre 2021: una serie impressionante di informative e report che, nelle settimane precedenti l’attacco, avvertivano della probabilità di attentati contro obiettivi ebraici in Italia intorno alla festività del Kippur, prima durante o poco dopo, e mettevano in testa alla lista delle sedi a rischio proprio la Sinagoga. È sulla base di questi documenti che la Procura di Roma può e deve muoversi nell’inchiesta sul 9 ottobre 1982 che si è infine decisa a riaprire.
Ma quella sanguinosa mattinata di quarant’anni fa non è un’eccezione. Il vero pericolo, oggi, è di indagare su quei fatti considerandola tale. Sarebbe un ennesimo depistaggio di fatto. L’attacco alla Sinagoga va inquadrato nella cornice complessiva dell’accordo tra Italia e organizzazioni palestinesi noto come lodo Moro e di cui a tutt’oggi, nonostante evidenze e testimonianze, lo Stato italiano nega l’esistenza.
Grazie ai documenti portati alla luce da Terracina, abbiamo ricostruito, il 21 e 22 dicembre 2021, gli intrecci fra le trattative allora in corso per definire il lodo e la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, che provocò 34 morti e 15 feriti. Una strage a lungo “dimenticata”, mai celebrata, cancellata al punto che sino a pochi anni fa le vittime non comparivano neppure negli elenchi delle vittime di terrorismo in Italia. Quella documentazione dimostra che proprio l’accordo in gestazione spiega l’assenza di prevenzione e controlli che, nonostante anche in quel caso ci fossero stati precisi avvertimenti, permisero l’attacco e la strage.
Sul lodo Moro, proprio grazie alla reticenza e all’omertà dello Stato, ci sono ancora una confusione e molteplici ambiguità intollerabili a decenni di distanza dai fatti. In un articolo documentato della stessa Terracina, pubblicato il 2 giugno di quest’anno, abbiamo ricostruito la genesi del patto tra Italia e Olp in un contesto europeo. Senza dubbio, infatti, all’origine il lodo Moro non è stato una specificità italiana. A partire dalla Germania molti Stati europei avevano stretto accordi che garantivano libertà d’azione e scarcerazioni immediate ai terroristi palestinesi in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi di quei Paesi. Si trattava insomma davvero solo di una sorta di scudo, come lo descriveva lo stesso Moro nelle sue lettere dalla “prigione del popolo” di via Montalcini.
Ma l’Italia, a differenza degli altri Paesi europei, non si è fermata qui. L’accordo sempre più stretto con l’Olp è diventato negli anni ‘70 e soprattutto ‘80 una delle leve principali della nostra politica estera ed energetica, uno degli elementi forti sui quali basare la politica “filo-araba” impostata dallo Stato italiano in quei due decenni. Il 22 febbraio scorso abbiamo pubblicato i documenti che provano lo stringersi dei rapporti, anche in termini di finanziamento diretto, tra Italia e organizzazioni palestinesi. Il 14 luglio abbiamo ricostruito, pubblicando alcune carte segrete, una delle vicende più tragiche collegate all’accordo, il dirottamento dell’Achille Lauro nell’ottobre 1985, nel quale fu ucciso a freddo un passeggero ebreo, Leon Klinghoffer. Il dirottamento portò la tensione tra l’Italia, che proteggeva il capo dei dirottatori, e gli Usa, che volevano arrestarlo, a un passo dallo scontro armato a Sigonella, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985.
Il dirottamento della “Lauro” non è il solo episodio tragico sul quale proiettano un’ombra ancora densa il lodo Moro e la necessità per lo Stato italiano di difendere quel patto a ogni costo. È così per il rapimento da parte dei palestinesi dei giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, nel settembre del 1980 a Beirut, mai più ritrovati. E in realtà mai cercati, dal momento che i servizi italiani si occuparono soprattutto di depistare e nascondere le responsabilità palestinesi. È così per la seconda strage di Fiumicino, quella che nel 1985 costò la vita ad altre 19 persone. È così, forse, anche per la strage di Bologna, la più grave nella storia repubblicana, per la quale sono stati condannati i terroristi neri dei Nar nonostante ormai innumerevoli indizi, scientemente trascurati, indichino invece una possibile matrice palestinese. Per questo la nuova inchiesta della Procura di Roma si troverà di fronte a un bivio: indagare davvero a tutto campo e senza pastoie oppure, ancora una volta, svicolare e proteggere i segreti del lodo Moro.
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