Sono giorni di stallo, di attesa e di allerta quelli che si vivono in Israele e nei territori palestinesi. Il negoziato con Hamas vive momenti di accelerazione, soprattutto su spinta dell’amministrazione Biden, ma anche brusche frenate che confermano il timore per il fallimento anche di quest’ultimo round di colloqui. Al punto che gli Usa hanno fatto capire di non essere disposti ad aspettare ancora a lungo.

Nella Striscia di Gaza, dove prosegue tra mille difficoltà la campagna di vaccinazione dei bambini contro la poliomielite, le Israel defense forces continuano la loro operazione contro Hamas e le altre fazioni armati palestinesi. I raid non si fermano, così come la caccia ai comandanti delle milizie e la ricerca di qualsiasi indizio che possa dire dove si trovano gli ultimi ostaggi rimasti in vita. E nel frattempo, in questi giorni, è esplosa anche la tensione in Cisgiordania. Ieri le forze armate dello Stato ebraico – dopo 10 giorni di raid – hanno smentito le notizie sul ritiro da Jenin, epicentro di una delle più imponenti operazioni di sicurezza nella West Bank degli ultimi anni.

“Le truppe continueranno l’operazione finché non saranno raggiunti i suoi obiettivi“, ha comunicato l’Idf, ricordando che il bilancio dell’operazione è di 14 miliziani palestinesi solo nel campo profughi di Jenin e di più di 30 arresti tra le persone ricercate. E il ministro della sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, uno dei massimi esponenti dell’ultradestra israeliana, ha scritto un messaggio sul suo profilo X facendo una richiesta molto esplicita al primo ministro Benjamin Netanyahu. “Non dobbiamo ripetere gli errori, guerra ad Hamas, anche in Giudea e Samaria!“, ha scritto il ministro utilizzando i termini con cui viene definita la Cisgiordania nello Stato ebraico. Un segnale importante sul fatto che il pressing su Netanyahu da parte dell’alleato riguarda ormai anche l’area sotto il controllo dell’Autorità nazionale palestinese. E dove anche questa fragile, indebolita ma ancora indispensabile istituzione presieduta da Abu Mazen teme che Hamas possa prendere il sopravvento.

L’allerta è alta. E gli scontri tra miliziani e soldati dell’Idf e tra residenti palestinesi e coloni israeliani possono incendiare la regione superando il livello di guardia. Ieri è giunta la notizia della morte di un’attivista di origine turca ma di cittadinanza statunitense, Aysenur Ezgi Eygi. Secondo i media locali, la donna è stata uccisa dalle forze israeliane. L’Idf ieri ha aperto un’indagine e ha dichiarato che in un raid a Beita, non lontano da Nablus, i militari hanno sparato contro un “istigatore” che “rappresentava una minaccia” e che lanciava dei sassi con le truppe. “Siamo a conoscenza della tragica morte di una cittadina americana, Aysenur Eygi, avvenuta oggi in Cisgiordania. Esprimiamo le nostre più sentite condoglianze alla sua famiglia e ai suoi cari”, ha scritto l’ambasciatore Usa in Israele, Jack Lew, che ha sottolineato la volontà di Washington di chiarire la dinamica di quanto accaduto nella West Bank. “Stiamo raccogliendo urgentemente maggiori informazioni sulle circostanze della sua morte e avremo altro da dire man mano che ne sapremo di più. Non abbiamo priorità più alta della sicurezza e della protezione dei cittadini americani”, ha aggiunto l’ambasciatore.

Questo incidente rischia di essere un nuovo episodio di frizione tra il governo Netanyahu e l’amministrazione Biden. La tensione tra i due alleati resta alta. E il rischio di una frattura irrecuperabile è dietro l’angolo. Da Washington continuano a lanciare ultimatum all’esecutivo israeliano per arrivare a un accordo con Hamas sulla tregua a Gaza e la liberazione degli ostaggi. Ma gli ostacoli sul cammino dell’intesa sono molti. E mentre Hamas alza continuamente la posta in gioco, irritando i mediatori americani, la Casa Bianca deve anche gestire un Netanyahu che appare molto distante dai desiderata di Washington. L’emittente israeliana Channel 13 ha rivelato che dagli Stati Uniti sono arrivati due input molto espliciti nei riguardi del premier dello Stato ebraico.

Il primo riguarda il ministro della Difesa, Yoav Gallant, che Joe Biden e il suo staff vogliono che rimanga al suo posto e che sia escluso qualsiasi tipo di rimozione dall’incarico. Il ministro è l’ultimo vero interlocutore dell’amministrazione Usa rimasto all’interno del governo (soprattutto dopo la fine dell’esperienza del gabinetto di guerra con Benny Gantz e Gadi Eisenkot). E la sua linea più pragmatica è quella preferita da Washington. Il secondo messaggio, invece, riguarda un altro fattore: la presenza militare statunitense in Medio Oriente. Il Pentagono, la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato hanno fatto capire a Israele che la sua macchina schierata a difesa dello Stato ebraico come deterrente per l’Iran non è a tempo indeterminato. E arrivare a un accordo sugli ostaggi potrebbe disinnescare anche la possibile vendetta di Teheran, giurata dopo l’omicidio di Ismail Haniyeh e collegata all’evoluzione del negoziato.