Più presente che mai, con un ruolo da leader politico, prima che da amministratore della sua regione. Giovanni Toti spenderà oggi la propria voce a rivendicare il suo buon governo in quell’aula del consiglio regionale in cui la sinistra d’opposizione chiederà un voto di sfiducia nei confronti del governatore. E lui, con un doppio colpo di teatro, perché è stato autorizzato a incontrare al domicilio coatto un suo assessore e anche a mandare un messaggio ai cittadini liguri, si presenta non come un presidente dimezzato dalla privazione della libertà, ma come un liberale che impartisce una lezione ai propri antagonisti. Come ha già fatto con la diffusione della propria autodifesa dopo il suo interrogatorio, battendo sul tempo della comunicazione anche la stessa procura.

“Con questa mozione di sfiducia – leggerà oggi nell’aula Alessandro Bozzano, il capogruppo della Lista Toti Liguria – le opposizioni tentano una spallata politica che non solo non riuscirà nei numeri, ma conferma tutta la propria inadeguatezza a guidare questa regione”. C’è l’orgoglio di aver promosso lo sviluppo in una regione che era “entità geografica” e “non amministrativa”, una “terra in ombra” mortificata dalla “mediocrità della sua classe dirigente”. Ma c’è soprattutto, e spuntano sempre le origini politiche del Giovanni Toti giornalista e poi politico nato e cresciuto nell’alveo berlusconiano, l’indice puntato nei confronti di un Pd contaminato dalla sub-cultura grillina e dall’imperativo categorico di dover governare a ogni costo. Quando non si riesce con i voti, come è capitato negli ultimi nove anni in Liguria, si tenta l’uso della carta giudiziaria, l’inchiesta che cala come il formaggio sui maccheroni e che suscita la reazione pavloviana, da parte della sinistra, della richiesta di dimissioni dell’antagonista politico. Per ragioni di opportunità, naturalmente.

Perché ormai nessuno, con l’eccezione di Giuseppe Conte, ha più la spudoratezza di collegare le mozioni di sfiducia direttamente alle carte dei procuratori. Non sarebbe politically correct. Peccato che le informazioni, vere o false o mescolate o travisate, vengano attinte con ingordigia dal mercato nero delle intercettazioni, volantinate a piene mani da chissà chi. E nessuno sa rispondere alla più banale delle domande: perché le dimissioni non vengono mai sollecitate quando accadono i fatti, ma solo dopo che ci si è abbeverati all’interpretazione che degli accadimenti viene data da un pubblico ministero? Le tre pagine del documento scritto dal governatore Toti sono state consegnate sabato scorso all’assessore Giacomo Giampedrone, a lui il più vicino, anche per antico rapporto di amicizia, che ha potuto trascorrere alcune ore nella casa dove il presidente della regione Liguria è agli arresti domiciliari da ormai quasi un mese, dal 7 maggio.

L’autorizzazione all’incontro, data dalla gip Paola Faggioni con il parere positivo della procura, è il frutto della saggezza limpida di un indagato che non ha tentato la classica arrampicata sugli specchi per nascondere le proprie “malefatte”, che non ha negato niente, ma “si è messo a disposizione dei magistrati per chiarire tutti i contorni di questa vicenda”. E anche alla lungimiranza di un avvocato, il suo difensore Stefano Savi, che non si è gettato nella mischia del corpo a corpo con la procura e non ha giocato da subito la carta della richiesta di revoca della misura cautelare. Non con la gip, ma neppure con il tribunale del riesame. Un passo dopo l’altro, sembra essere il motto della coppia Toti-Savi, con la forza tranquilla di altre nobili tradizioni politiche. Senza revanchismi, per esempio.

Mentre in questi giorni alcuni quotidiani di area centrodestra svolgono inchieste speculari e opposte a quelle schieratissime di Repubblica e Secolo XIX alludendo a coinvolgimenti di uomini del Pd in atti di corruzione presenti nell’inchiesta genovese, il documento di Toti ne resta distante. Togliendosi solo un piccolo sassolino. “Non imiterò le opposizioni – scrive – parlando delle ombre lunghe che riguardano il Partito Democratico”. Solo un accenno. Chissà se, dopo che il pensiero è volato a Mitterand, c’è anche spazio per quel Bettino Craxi che, nei due discorsi alla camera del 1992 e 1993, aveva alluso ai bilanci “falsi o falsificati” di tutti i partiti. Denuncia politica, non giudiziaria. E rispetto per quei titolari dell’inchiesta, in gran parte dell’area di Magistratura Democratica, che, dopo circa quattro anni di indagini segrete in cui l’uso di trojan ha controllato con la forza di un Grande Fratello tutta l’attività politica e amministrativa del governatore Toti, stanno dando un impulso larghissimo all’inchiesta, con interrogatori di numerosi testimoni e previsione di tempi lunghi.

Il che non impedisce di ricordare sempre le anomalie di questa inchiesta, a partire da quella contestazione dell’aggravante mafiosa nei confronti di alcuni indagati, anche se non di Toti, che ha consentito le intercettazioni per quattro anni e il prolungamento della data di prescrizione dei reati, per esempio quelli della violazione delle leggi elettorali. Non può restare sotto silenzio, al riguardo, una battuta che il ministro Carlo Nordio, pubblico ministero per quarant’anni, ha buttato lì, al termine di una lunga intervista rilasciata a Hoara Borselli sul Giornale il primo giugno. Ha parlato dei trucchi usati dai pubblici ministeri, come quello del “fascicolo virtuale”. “È quello che un pm si tiene nel cassetto per indagare una persona, magari ipotizzando un reato inesistente, che gli consenta di chiedere le intercettazioni, ad esempio contestando l’associazione mafi osa. Poi quel reato cade, ma le intercettazioni restano. È un sistema per eludere la legge”. A qualcuno saranno fischiate le orecchie?

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.