Solita estate. Caldo cattivo ed equatoriale, vecchietti ai domiciliari col deumidificatore, guerre dietro la porta, polemicucce – si dice architettate da Putin col suo esercito di hacker – sul testosterone esagerato circolante in una boxeur algerina, che tanto ricordano le obiezioni (silenziate) alle lottatrici sovietiche alle Olimpiadi di cinquant’anni fa, quelle signore dalle sembianze geneticamente modificate, ornate di mustacchi.

Simul stabunt simul cadent

Quel che resta di politico è la scia dell’autonomia differenziata, dopo l’approvazione alle Camere, in forma di mobilitazione delle opposizioni a vario titolo per la raccolta delle firme con finalità referendarie. E questo è il punto: l’autonomia differenziata e il premierato elettivo stanno insieme, genere simul stabunt simul cadent, perché reggono il sinallagma delle prestazioni concordate alle origini del governo tra Meloni e Salvini. Dunque può essere più o meno entusiastica l’adesione dell’una alla riforma dell’altro e viceversa, ma se cade l’una cade pure l’altra.

Autonomia differenziata

L’autonomia differenziata sembra aver smosso orizzontalmente e verticalmente politica, meridionalisti, associazionismo, società e, con lettere molto chiare, persino la Chiesa. La mobilitazione funziona, offrendosi come laboratorio di un fronte delle opposizioni simile a quello francese contro il pericolo Le Pen, rompendo l’incantesimo di una sinistra/sinistra isolata e minoritaria nell’esercizio del suo ruolo antagonistico. Certo, il coagulo dei consensi contro il provvedimento firmato Calderoli è più facile e, probabilmente, può trovare adesioni persino in area destrorsa. Ma, attenzione: non solo può non restare un episodio limitato, ma potrebbe addirittura diventare una prova generale di cambio di stagione che si annuncia insieme ad alcuni indizi non proprio fausti per il governo, come la postura poco collaborativa della famiglia Berlusconi, l’isolamento internazionale, l’apertura di un nuovo tempo che per l’economia e la finanza non si prospetta rose e fiori, la difficoltà crescente delle famiglie italiane, tanto per ricordare alcune incombenze. Ma, soprattutto, la vasta alleanza referendaria in chiave anti- autonomia differenziata finirebbe per trascinare con sé la riforma “madre di tutte le riforme”, il premierato targato Meloni.

Il premierato

Anche lì si andrà a referendum, naturalmente con modalità diverse da quello previsto per la legge Calderoli, che è ordinaria, mentre invece per il premierato c’è la procedura costituzionale. E questo in sé a rappresentare già un problema. Storicamente non è che i referendum costituzionali abbiano detto un gran bene ai governi promotori delle riforme, tant’è che circola l’opinione che gli italiani siano dei conservatori dal punto di vista della possibilità di modifica della Carta. In verità a noi sembrerebbe che sia sempre prevalso, piuttosto che il merito, la questione politica sul sì o il no al governo “proponente” la riforma. Si salvò solo quella del titolo V, voluta dal centro-sinistra e confermata (con una affluenza bassissima, solo il 34%) quando al governo già si trovava Berlusconi. Le due grandi riforme d’impianto, invece, andarono a finir male: una, quella con suggestioni presidenzialistiche voluta dal premiertycoon, venne sonoramente bocciata nel 2006 e dieci anni dopo la stessa sorte toccò a Renzi, autore anch’egli di una vasta rivoluzione che cancellava il bicameralismo simmetrico, il CNEL e le province: perse con il 40,88% contro il 59,12. Perse il referendum, la presidenza del Consiglio e il PD, in una botta sola. Da ultimo – ma è un po’ fuori serie per i contenuti intimamente populistici e l’intestazione non al governo ma a tutte le forze parlamentari della riforma – il taglio dei parlamentari del 2020: quasi il 70% degli italiani disse sì.

E, in fondo, si trattò dell’unico risultato che fece registrare una certa ribellione all’orientamento prevalente nella politica, in genere rispettato, perché tutti i partiti erano d’accordo, in overdose di populismo somministrato per endovena: chi può essere contrario a togliere le indennità a svariate decine di parlamentari? Alla Camera, infatti, solo 14 deputati votarono contro. Solo il 2,4%, dunque. Gli italiani che dissero no, invece, furono più del 30%. Non si fidavano comunque, neanche del taglio dei parlamentari! Per concludere: chi va per riforme costituzionali (o para) trova sempre un referendum. E non è detto che non sia quello su cui s’inciampa.