La proposta della ministra
Autonomie: non ignoriamo la lezione del Covid
Come un torrente carsico, il tema del regionalismo differenziato, veicolato dalle richieste di maggiore autonomia di Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna, è improvvisamente e inopinatamente riemerso agli onori delle cronache. Nel corso della sua audizione del 26 maggio presso la Commissione bicamerale per il federalismo fiscale, la Ministra per gli Affari regionali e le Autonomie Mariastella Gelmini ha infatti manifestato l’intenzione di riannodare il filo del discorso bruscamente interrottosi nell’autunno del 2019 a causa della pandemia.
L’obiettivo sarebbe quello di riprendere, per migliorarla, la proposta di legge-quadro formulata dall’ex ministro Boccia, suo predecessore, che era stata oggetto di confronto nella Conferenza Stato – Regioni e con i singoli Presidenti di Regione, senza però essere mai approdata né in Consiglio dei ministri, né in Parlamento. Proposta di legge-quadro assolutamente fondamentale e preliminare ad ogni riforma in materia perché deve fissare i limiti di tali “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (art. 116.3 Cost.), a cominciare dalla determinazione di quei “livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali” che devono essere assicurati e tutelati nell’intero territorio nazionale (art. 120.1 Cost.). Approvata tale legge, nelle intenzioni della Ministra dovrebbe essere più facile approvare le “intese” con le singole regioni sulle materie su cui esse hanno reclamato maggiore autonomia e poi sottoporle all’approvazione definitiva delle Camere.
Si tratta di materie numerose (la Lombardia ne reclama ben 23) e, soprattutto, importanti, sia per la loro incidenza sul PIL nazionale, sia perché comporterebbero il trasferimento di materie (con relative risorse finanziarie) finora di esclusiva competenza statale (come le norme generali sull’istruzione e la tutela dell’ambiente), oppure di competenza concorrente come per esempio la sanità. Ma quanto accaduto dall’autunno del 2019 non può essere considerato come una tristissima e dolorosa parentesi. Non si può, in tutta coscienza, riprendere un tema così delicato per l’unità ed il futuro del Paese, come il regionalismo differenziato, all’insegna di un semplice “dove eravamo rimasti?”, facendo finta di ignorare come la pandemia abbia impietosamente e drammaticamente svelato, ed anzi acuito le ben note criticità esistenti nel rapporto tra Stato e Regioni. Non si può, infatti, dimenticare quanta cattiva prova di sé hanno dato le Regioni, a cominciare da quelle che sembravano essere all’avanguardia, nella gestione legislativa ed amministrativa dell’emergenza Covid-19, rivendicando la loro autonomia più per distinguersi (anche politicamente) dalle decisioni statali in tema di apertura e di chiusure e ora di vaccinazioni, quando all’opposto la pandemia, che non conosce confini, richiedeva e richiede interventi centralizzati da parte dello Stato.
Ce lo ha autorevolmente ricordato la Corte costituzionale nella recente sentenza n. 37 di quest’anno quando ha affermato che «a fronte di malattie altamente contagiose in grado di diffondersi a livello globale, ragioni logiche, prima che giuridiche radicano nell’ordinamento costituzionale l’esigenza di una disciplina unitaria, di carattere nazionale, idonea a preservare l’uguaglianza delle persone nell’esercizio del fondamentale diritto alla salute e a tutelare contemporaneamente l’interesse della collettività». Non si può allora affrontare il tema delle autonomie differenziate come se nulla fosse accaduto. Piuttosto, oggi più che mai, esso andrebbe inquadrato nell’ottica di una riflessione complessiva del ruolo dell’amministrazione centrale e dell’indirizzo politico di ciascuna regione, anche alla luce del processo in corso sul federalismo fiscale (per non dire della più complessiva riforma fiscale) cui fa riferimento il PNRR (Piano nazionale di ripresa e resilienza) che deve comportare la ridefinizione dei criteri di ripartizione delle entrate e delle spese per ridurre il divario Nord-Sud.
Divario, sia chiaro, che ha profonde radici storiche e le cui responsabilità ricadono anche in un certo meridionalismo vittimista e piagnone, ma che il regionalismo differenziato rischierebbe di aggravare addirittura in maniera definitiva in un momento così strategico per il futuro del nostro Paese in cui c’è e sempre più ci sarà maggior bisogno di unità e coesione. Non è, quindi, per cavillose ed astratte ragioni formali che la legge-quadro sul regionalismo differenziato dovrebbe costituire limite invalicabile per le successive specifiche intese con le singole regioni e che queste ultime dovrebbero essere esaminate e, se del caso, modificate dal Parlamento che, quale sede della rappresentanza politica nazionale a tutela della sua unità, non può certo sottostare alla logica ricattatoria del “prendere o lasciare”.
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