Scoppia il caso a Napoli
Avvocati intercettati, così i pm aggiravano le norme
Tra le mille pagine di un provvedimento cautelare notificato qualche giorno fa a 66 indagati per appalti e camorra nell’inchiesta Rfi circa dodici pagine riportano le conversazioni spiate tra un penalista e la moglie di un suo cliente e le conversazioni di un altro penalista con quello che di lì a qualche mese sarebbe diventato suo cliente. Nel primo caso si parla del marito detenuto che ha bisogno di una visita odontoiatrica con urgenza, nel secondo di questioni processuali che interessano un amico del futuro cliente del penalista, il quale intanto è già difensore dell’amico del suo interlocutore.
Insomma si parla di processi, strategie difensive, ricorsi, istanze. Di tutto quello di cui normalmente parla un avvocato penalista quando incontra qualcuno che finisce nelle maglie della giustizia e ha bisogno di assistenza legale. Conversazioni, quindi, che dovrebbero essere sacre, protette, rese inviolabili dal trojan a meno che non vi siano indizi di reato a carico del difensore stesso. E invece cosa accade? Accade che i paletti messi dalla legge (tanto per cominciare l’articolo 103 del codice di procedura penale) vengono facilmente arginati dai pm. Qualcosa di simile alle famose intercettazioni a strascico con cui per anni si è puntato a indagare la persona per trovare un indizio di reato e non a indagare su un reato per verificarlo.
Una distorsione che fa pendere l’ago della bilancia a favore della Procura, rimarcando ancora una volta che purtroppo la parità tra le parti processuali nella realtà non esiste, perché è chiaro che accusa e difesa giocano con armi impari. I pm possono intercettare chi vogliono, i difensori non possono nemmeno parlare, devono misurare ogni parola persino quando sono a colloquio con i propri clienti. Guai a fare commenti su inchieste, spingersi in qualche valutazione su posizioni processuali vicine a quelle che direttamente interessano il proprio cliente; può essere rischioso persino concedersi quel pourparler che in fondo è cortesia, è educazione, è l’umano scambio di chiacchiere tra due persone che devono comunque entrare in relazione per affrontare una vicenda delicata come quella giudiziaria, l’uno in quanto avvocato difensore e l’altro come indagato, imputato o parte lesa. Si può finire intercettati, la propria voce stampata nei brogliacci e le parole pronunciate messe nero su bianco, addirittura trascritte in un’ordinanza di custodia cautelare e perciò rese pubbliche.
È accaduto a due penalisti napoletani i cui nomi sono nell’inchiesta sul clan dei Casalesi, intercettati pur senza aver commesso nulla di illecito né essere minimamente sospettati di averlo fatto. I loro dialoghi con amici o familiari di loro assistiti sono finiti nelle pagine del provvedimento cautelare come se avessero valore di prova. Ma prova di che? Al momento sembra più la prova di una forzatura che interferisce sulla riservatezza del rapporto tra difensore e assistito e quindi su un diritto inviolabile qual è il diritto di difesa. Sapete come pm e gip superano l’ostacolo? Visto che non possiamo intercettare e trascrivere i dialoghi del penalista e del detenuto in carcere o dell’imputato sotto processo, intercettiamo e trascriviamo i dialoghi che il penalista fa con chi sta accanto al cliente detenuto o imputato, cioè un familiare. Ma vi sembra normale? Quelle frasi sono messe accanto ad altre fonti di prova per motivare una serie di arresti per reati di associazione a delinquere di stampo camorristico, i Casalesi.
Nel firmare il provvedimento il gip si pone il problema della trascrizione e della utilizzabilità delle conversazioni che riguardano i due penalisti le lo supera con una conclusione che è questa: «Le conversazioni captate, di seguito esposte, devono ritenersi pienamente utilizzabili atteso che, a quanto emerge dagli atti, al momento del dialogo tra l’indagato e l’avvocato quest’ultimo non era il difensore». Lo sarebbe diventato di lì a poco, era una conversazione forse esplorativa e in tal caso, quindi, più vicina a quella sfera di riservatezza che fa parte dell’inviolabile diritto di difesa. «La giurisprudenza – scrive il gip – ha in maniera assolutamente univoca evidenziato che non esiste una zona di immunità per la quale non è possibile ascoltare i colloqui dei difensori con soggetti privati, pur magari loro abituali clienti». Eccolo arginato, quindi, il paletto della norma che tutela la segretezza del rapporto tra difensore e cliente. E allora, viene da chiedersi, come si salvaguarda la dignità professionale degli avvocati?
Come si garantisce la libertà nello svolgimento dell’attività difensiva? Come si rispetta il segreto professionale? Può dirsi equo un processo del genere? Sarà equo il processo e si potrà definire libera la difesa di questi indagati raggiunti da un provvedimento in cui ci sono nero su bianco anche i dialoghi origliati con i difensori? Il tema è delicato e negli ultimi anni è venuto a galla più volte. La legge traccia la linea maestra: in sintesi, un avvocato sospettato di aver commesso un reato può essere intercettato come ogni altro cittadino. Ma qui non siamo in questa sfera, le intercettazioni fatte dalla Dda di Napoli e trascritte in un provvedimento contro una serie di presunti affiliati a clan della camorra sono intercettazioni cosiddette indirette. Ed eccola la nota che crea la distorsione, che genera il caso, che dà ai pm di superare i paletti messi dalla norma: la Cassazione ha stabilito che il divieto di intercettazione riguarda esclusivamente le dichiarazioni pronunciate nell’ambito del mandato difensivo e non quelle di tipo più amicale. E così, altro che parità tra le parti processuali.
Uno studio di alcuni fa, condotto dall’università di Bologna, ha rivelato l’abitudine delle Procure a intercettare in tali contesti. Lo studio raccoglieva le risposte di 1.265 penalisti sulla frequenza con cui si fossero imbattuti in casi di intercettazioni tra l’indagato e il suo difensore effettuate e trascritte: il 3,6 % aveva risposto che accade sempre, il 25,3% che accade di frequente, il 43,2% poche volte, e appena il 27,9% degli avvocati aveva risposto mai. A Napoli non è la prima volta che il dialogo di un avvocato finisce negli atti di un’inchiesta. La vicenda dei due penalisti di cui parliamo non ha suscitato finora grande clamore mediatico ma è all’attenzione della Camera penale di Napoli che sta studiando il caso.
Qualche anno fa, sempre a Napoli, ci fu una vibrante protesta dei penalisti, con la denuncia di sempre più frequenti casi in cui stralci di conversazioni venivano poste alla base di richieste ( e concessioni ) di misure cautelari e richieste di rinvio a giudizio e persino citate durante l’esame dibattimentale dagli ufficiali di polizia giudiziaria che le avevano ascoltate e/o trascritte. «Si tratta di una intollerabile lesione di un principio basilare delle garanzie di libertà della funzione difensiva che deve valere per tutti i tipi di comunicazione e per tutte le fasi del rapporto confidenziale con l’assistito, ivi comprese quelle prodromiche alla assunzione dell’incarico», si disse. Sono trascorsi circa sei anni da allora. E cosa è cambiato?
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