Il racconto
Avvocato in quarantena chiede rinvio udienza: il giudice rifiuta
Difendo una donna accusata di un crimine grave. S’è scelto il giudizio abbreviato non sottoposto a condizioni. In pratica tutta la difesa sta nella discussione difensiva, solo nella discussione della difesa. Sarò uno degli ultimi a discutere, assieme al collega che con me difende quella donna. Ci siamo divisi i compiti, come è ovvio che sia di fronte ad una vicenda per la quale il P.M, nella sua richiesta, è andato “in doppia cifra”, come si dice nello slang dei penalisti romani nel caso in cui la richiesta di condanna abbia raggiunto o superato i dieci anni di reclusione. Le discussioni dei difensori vanno avanti da numerose udienze ma, tutto sommato, Covid incluso, il ritmo del processo è più che accettabile per gli standard della letargica giustizia del Bel Paese. Questo è dimostrato dal fatto che gli imputati, tutti in custodia cautelare – tranne la mia assistita – sono ben lungi dalla scadenza dei termini della medesima. Il che in sostanza significa, secondo i parametri piuttosto cinici della pratica giudiziaria, che il giudice che procede non ha l’incubo di doversi sbrigare per evitare quello che la magistratura italiana considera il peggiori dei mali: la scarcerazione per scadenza dei termini di custodia cautelare.
Una eventualità rara ma che viene considerata una vera e propria debacle della giustizia ed una colpa grave del magistrato a cui capita; ciò anche al di là delle sue responsabilità disciplinari, che possono essere del tutto assenti. In qualsiasi modo sia andata, infatti, il giudice sarà visto dai colleghi come un gatto che si è fatto scappare il topo che aveva già acchiappato. Nei commenti al bar, come minimo, tra sorrisi di sufficienza, verrà definito un incompetente. Ho sempre pensato che questo abito mentale è sorprendente se non altro perché tradisce indirettamente una curiosa idea della presunzione di innocenza. In ogni caso, per colpa di questo tabù, ho visto processi trascinarsi per anni col ritmo lento ed indolente di un treno messicano – con gli imputati seduti per mesi e mesi nei loro gabbioni (che esistono ancora, come negli anni Cinquanta) – animarsi improvvisamente nell’ultimo miglio fino a filare come un treno giapponese man mano che l’incubo del giudice, cioè proprio la famigerata “scadenza termini”, iniziava a profilarsi all’orizzonte. Ho visto udienze protrarsi fino a notte fonda, o addirittura tenersi il sabato, che nei nostri tribunali è più sacro che in sinagoga.
Ho visto la difesa, cui spetta di presentare le proprie prove dopo quelle dell’accusa, a volte costretta a citare qualche decina di testimoni tutti assieme per lo stesso giorno dopo che, magari, ai testi principali dell’accusa, si erano dedicate decine di udienze in solitario. E già così va di lusso perché, per evitare l’incubo della scadenza termini, succede spesso che i testi della difesa vengano tagliati in maniera draconiana all’ultimo momento; testi che, dagli stessi giudici, inizialmente erano stati ritenuti necessari ai fini del decidere. L’ho visto, lo vedo tutti i giorni. Nei tribunali tutti sanno che la terzietà dei giudici e la parità delle parti su questo terreno è raro incontrarle: quando si avvicina la scadenza termini i giudici fanno il lavoro dei P.M., altro che storie. In ogni caso, se così va il mondo, questa volta il problema non si pone: nessuno degli imputati rischia di uscire per scadenza termini se il processo viene rinviato di qualche giorno. Ed allora, quando la mia segretaria mi avverte che l’hanno isolata a casa perché c’è sospetto del noto virus, ed il mio medico, applicando le regole, mi impone il tampone (che incredibilmente riesco a fare subito) e l’isolamento fiduciario in casa fino all’esito del mio test, sottopongo subito al giudice la richiesta di un brevissimo rinvio, magari solo di 36 ore, che sono il tempo minimo che mi hanno indicato per la consegna dei risultati. Lo faccio anche se so bene che una norma a dir poco discriminatoria, ed animata da un insopportabile pregiudizio nei confronti dei difensori, quando sono due avvocati ad assistere un imputato esclude la possibilità di far valere il “legittimo impedimento”.
Il che significa che se un imputato ha esercitato il suo diritto ad avere due avvocati e uno dei due il giorno dell’arringa ha l’influenza il giudice può tranquillamente dimezzare la difesa perché la metà della difesa, per il legislatore italiano, basta e avanza. So pure che, al di là di questo, l’interpretazione del concetto di “legittimo impedimento” del difensore è un tantino rigida sia da parte della Corte di cassazione che dei giudici di merito. Mentre la prima, infatti, onera l’avvocato di una tale montagna di incombenze e formalità per vedersi riconosciuto il rinvio che il Sudoku al confronto pare la tabellina del due, i secondi indulgono ad una giurisprudenza assai creativa sullo stesso concetto di “legittimo impedimento”, tanto che si ricordano casi di avvocati cui è stato rifiutato il rinvio non ritenendo che rientrasse nell’ipotesi la partecipazione al funerale di un genitore. Insomma, so che se il giudice vuole può dirmi che la legge non tutela il mio diritto a fare il mio mestiere, e quello della mia assistita ad avere fiducia in due persone, in due professionisti, invece che in un uno solo. Però sono anche convinto che in questo mondo di processi che vengono rinviati tutti i giorni perché un maresciallo sta in ferie o un magistrato sta facendo un corso a Scandicci – per non parlare delle migliaia di rinvii cagionati dalla caterva di errori di notifica che l’amministrazione giudiziaria commette – il giudice comprenderà che a poche ore dalla discussione costringere uno dei due avvocati a non parlare significa anche onerare l’altro dell’impossibile studio di questioni fin lì non affrontate. Significa colpire il diritto di difesa, in poche parole. Già, perché, per accidente, tutto questo accade a meno di 48 ore dal momento in cui dovremmo discutere.
Per questo, e anche perché il tormentone della scadenza in questo caso come visto non è invocabile, sono convinto che il giudice comprenderà. Comprenderà ed accorderà il rinvio come talvolta accade, perché c’è anche una parte della magistratura che ragiona in maniera diversa; poi c’è il Covid, bisogna darsi una mano. Invece non succede, con cortesia il giudice mi farà sapere che non è possibile, non solo perché non ci sono né aule né date disponibili nei giorni immediatamente successivi, ma anche perché gli imputati sono quasi tutti detenuti, perciò altri avvocati hanno chiesto di concludere auspicando eventuali scarcerazioni dopo la lettura del dispositivo. Rispondo per iscritto che, allora, la posizione della mia assistita, che non è detenuta, ben può essere stralciata e decisa da un altro magistrato. Rispondo anche, per la verità, che al di là dei formalismi questa faccenda dimostra che quella disponibilità che in tempi di Covid è stata richiesta agli avvocati per far funzionare la macchina della giustizia, quella che li ha portati a fare udienza nelle caserme e nei commissariati, non può essere intesa a senso unico. Rispondo che un problema burocratico non può prevalere sul buon senso.
Spiego che la situazione è illogica e paradossale: non sono io, per malattia o impegno professionale personali, ad invocare un legittimo impedimento, io sto benissimo e voglio discutere la causa, è lo Stato che mi impedisce di entrare in aula per tutelare in via preventiva la salute di tutti quelli che in quella aula saranno, giudice compreso. Utilizzo, infine, un concetto caro al mio amico Ettore Randazzo, quello della “pari dignità” della difesa, che nei tribunali italiani difficilmente ha cittadinanza. Nel frattempo però il giudice ha disposto che si tenterà di stabilire un collegamento telematico per farmi discutere da remoto. Sembra una mezza vittoria ma in realtà è un contentino: fare una arringa così non è la stessa cosa né per chi parla né per chi ascolta. Il giorno dopo mi collego e prima di tutto protesto, eccepisco che nessuna norma permette una discussione telematica, che lo stralcio è possibile, che la mia dignità e il diritto dell’imputato sono violati.
Protesto e dico, senza giri di parole, che se nella mia posizione fosse stato un P.M. il rinvio gli sarebbe stato accordato. Lo dico perché è vero. Niente da fare, il giudice ribadisce, siete in due ed il rinvio non è previsto. Dura lex sed lex. A quel punto discuto guardando il giudice dal computer, e urlo ancor di più quel che avrei fatto in aula, perché sono un avvocato, anche senza toga sulle spalle, anche seduto alla scrivania e non in piedi di fronte al giudice, come si deve, come è giusto, come è ovvio, come è dignitoso. Discuto perché ho il peso del destino della mia assistita sulle spalle e posso anche seppellire la mia dignità personale in suo favore. Ma non è giusto e racconto questa storia perché la dice lunga su come il diritto di difesa sia inteso, dal codice e nelle aule, in questo Paese. Anche in tempi di Covid, soprattutto in tempo di Covid.
P.s. Nessuno è uscito alla lettura del dispositivo.
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