Bambino, in queste enormi Betlemme non c’è posto per te

“Il Natale ritorna ogni anno, invecchia con gli anziani, si rinnova con il bambino che nasce. Sa che la natura non potrebbe farne a meno”, così canta Efrem il Siro, un Padre dell’antica Chiesa d’Oriente. E continua: “Il mondo intero, o Signore, ha sete del giorno della tua nascita… Sia dunque anche quest’anno simile a te, porti la pace tra il cielo e la terra”.

Al di là di qualche sciocca polemica, facciamo bene a far festa in questo tempo perché il Natale è un giorno “amico degli uomini”. E ne abbiamo bisogno: quanti giorni in questo tempo di pandemia ci sono stati poco amici! Ma perché fare festa se la pandemia non è ancora debellata? Non vogliamo (né potremmo) dimenticare come le cose vanno nel mondo. Anche se il rischio di ripiegarsi su di sé è davvero forte! Né è saggio fuggire dalla durezza di un quotidiano con mascherine e distanze. E non vogliamo neppure precipitare nel rassegnato pessimismo di chi pensa che non si può fare nulla. No, il Natale viene per scuoterci, anzi per farci rinascere, per farci sperare in un mondo che può rinnovarsi, che può cambiare la vita nostra e di tutti.

La ragione della festa di Natale – intendo la ragione profonda i cui riverberi comunque arrivano in superficie come accade con i terremoti – è fuori di noi. E’ la venuta di Dio che sceglie di scendere dal Cielo e farsi prossimo, vicino a noi, qui sulla terra. Per trasformarla. Questa notizia, già di per se sconvolgente, lo è ancor più per il modo con cui è accaduta. Il Figlio di Dio viene sulla terra, accettando di nascere in una stalla e mostrandosi come un bambino, la più debole tra le creature. Chi mai avrebbe anche solo potuto pensarlo? Eppure il Natale è tutto qui: un Dio, fragile bambino che ha scelto di vivere tra noi come uno di noi. “Troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia” disse l’angelo ai pastori. Essi, ritenuti tra la gente più disprezzata del tempo – non potevano testimoniare in tribunale, tanto erano disprezzati -, furono i primi a cui fu annunciata la notizia e i primi ad accorrere. Anticipavano così un detto caro a Gesù: “I primi saranno gli ultimi e gli ultimi primi”.

Quella piccola famiglia nella grotta, circondata dai pastori, è tra le immagini più vere del Natale, a cui si aggiungeranno poi anche i “visionari” (i magi) dell’epoca, quelli di altre fedi e culture. Il Natale nasce subito universale. Quel Dio che scende vuole aiutarci a cambiare l’intera storia umana. In effetti, da quella grotta di duemila anni fa è iniziata una vera e propria rivoluzione dell’amore, un cambiamento della storia umana nel verso dell’amore. I nostri antichi lo avevano capito, tanto che presero a contare gli anni da quella notte. La storia sembrò loro iniziare nuovamente da zero da quel Natale. Ancora oggi continuiamo a dividere gli anni in “prima” e “dopo Cristo.
Quel Bambino chiede a tutti di condividere le sue aspirazioni verso la pace, la giustizia, la fratellanza universale. Ecco perché Natale è un giorno “amico degli uomini”, di tutti gli uomini.

Come allora non fare festa? Non c’è Covid che tenga. Guai a lasciarci rubare il Natale! Intendiamoci: tutte le misure di sicurezza vanno accolte e rispettate con rigorosa attenzione. Ma il Natale è oltre la nostra condizione. Anche se le misure dovessero restringersi ancor più, il Natale è qui, tutt’intero nella sua forza di cambiamento perché scende nelle profondità dell’umano: una energia profonda che trasforma i cuori e la storia. E’ il grande dono che il cristianesimo ha fatto al mondo. O meglio: è il dono che Dio stesso – attraverso la tradizione cristiana – ha fatto al mondo intero. E’ il dono che Dio fa, non di una grazia, non qualcosa di esterno a sé e di contingente, ma di se stesso agli uomini. Che cosa ciò vuol significare se non che Lui è lì, fra gli uomini, che d’ora in poi Dio va cercato, esplorato, riconosciuto, amato, abbracciato, non altrove, non chissà dove, ma incontrando gli uomini?

Lo chiede quel Bambino che – pur essendo la Parola fattasi carne (logos, in greco) – ancora non sa parlare e magari piange per il freddo di quella notte. Il Natale del 2021– il Natale di noi cattolici, sazi di cibo in Occidente, a rischio di perdere il senso delle proporzioni e della sensibilità, e quello di tutti gli uomini e le donne di buona volontà – ci chiede almeno di ascoltare il pianto di quel Bambino che implora aiuto e protezione. Assieme a Lui lo chiedono i milioni e milioni di bambini e bambine poveri, sfruttati e violentati di ogni parte del mondo; lo chiedono anche gli anziani scartati spesso dalla durezza dei nostri cuori e messi ai margini della vita. Lo chiedono i milioni di profughi in cerca di una casa da abitare e che trovano nelle enormi Betlemme contemporanee solo chiusura e respingimento. E si ripete l’amaro ritornello di quella notte: “Non c’era posto per loro”! Ed ecco le grotte di oggi: quei terribili campi profughi posti ai confini tra Messico e Usa, tra Polonia e Bielorussia e in tanti altri luoghi dell’Africa e dell’Asia, come anche nei numerosissimi luoghi di passione, di cattiveria, di esclusione e di respingimento nel mondo. In loro nome – si tratta di milioni e milioni di persone -, il Bambino di Betlemme, piangendo, chiede a tutti noi un po’ d’amore. Ecco il Natale del 2021? Una grande implorazione d’amore.

Gesù e i “piccoli” – i colpiti – di questo mondo ci chiedono, ci supplicano, ci implorano di essere amati. Ecco perché quel Bambino è importante ancora oggi: è la persona decisiva non solo per la nostra vita, ma per l’intera storia degli uomini. Chi guarda quel Bambino, e non se stesso o i tanti idoli di questo mondo, riesce a trovare il senso della vita e della storia, ed anche della propria felicità. A Natale quel che conta è andare a vedere Gesù, è trovarsi attorno a quella mangiatoia. Un Natale così è davvero “amico degli uomini”, amico dei deboli, amico dei piccoli. Ed è l’inizio di un nuovo tempo. Mi torna in mente una frase di Sant’Agostino: “Abbiamo davanti il Cristo bambino: cresciamo insieme con lui”. Sì, possiamo crescere con lui, nei giorni, nei mesi che verranno. Cari amici, non è a mio avviso anzitutto una questione di fede e neppure di appartenenza confessionale. E’ questione d’amore, di passione per i deboli, i poveri, i disperati, i soli, gli abbandonati. In essi è presente Gesù stesso.

I poveri non sono un caso sociale: sono anzitutto Gesù stesso. Per sant’Agostino – come per me – quel Gesù è già “Cristo”, è già la promessa e la rivelazione di Dio. Per tutti è comunque un Bambino straordinario che ha iniziato una storia nuova per tutti, non per i credenti e neppure per i suoi discepoli. Per tutti. Gli stessi Vangeli sono pieni di gente non credente che Gesù ha guarito, lodato ed anche posti ad esempio da imitare. Basti pensare al samaritano il cui titolo di gloria per Gesù non è la sua fede in lui, ma solo quello di aver amato un disgraziato derubato, malmenato e lasciato mezzo morto ai margini della strada, prendendosi cura di lui con atti concreti. Il Gesù di Natale è un Dio “in uscita”, direbbe papa Francesco e noi potremmo aggiungere uscito “in discesa”. Betlemme è la prima tappa di questa discesa d’amore.

Ecco il Natale: un Dio sceso “nel più basso” dell’umanità. Non per rimanere lì. E’ sceso nel più basso per cambiare verso alla storia degli uomini. Dal Natale la storia riprende la forma voluta da Dio: risalire verso il Cielo, non più da solo come nella discesa, ma attorniato da un “noi” che si fa sempre più numeroso che si incammina verso una destinazione comune nella pace unita dal vincolo dell’amore. Crescere con Gesù significa combattere ogni male e allargare la fraternità per poter assieme “ri-formare” il mondo sulla via della pace.